4 milioni di animali uccisi in Italia per l’epidemia di influenza aviaria: quali sono i rischi
Nei giorni scorsi un esemplare femmina di cigno reale (Cygnus olor) è stato trovato morto al laghetto del Giglio di Villa Pamphilj a Roma, un evento che ha immediatamente destato i sospetti degli addetti del parco. Gli esami condotti in laboratorio sui campioni biologici di Orietta, com'era conosciuta la cigna, hanno purtroppo dato l'esito peggiore: infezione da influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI) causata dal virus del sottotipo H5N1. La scoperta ha spinto l'amministrazione capitolina a disporre la chiusura immediata della parte Est della villa romana, mentre l'ASL sta continuando a isolare, osservare e testare gli uccelli alla ricerca di altri esemplari positivi. Orietta è stata soltanto una delle ultime vittime provocate da questo agente patogeno, responsabile di ondate epidemiche stagionali (durante i mesi freddi dell'anno) che nella stragrande maggioranza dei casi hanno esiti drammatici per gli animali coinvolti, direttamente o indirettamente.
Basti pensare che a partire dal 19 ottobre, sulla base dei dati diffusi dall'Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSZ), in Italia sono state già registrate decine e decine di focolai, che continuano ad aumentare giorno dopo giorno. Nelle ultime settimane la diffusione dell'influenza aviaria H5N1 negli allevamenti italiani ha portato all'abbattimento di circa 4 milioni di animali, come riportato in un comunicato stampa della LAV. Fra i più colpiti vi sono polli broiler (quelli destinati al mercato della carne), tacchini, galline ovaiole e quaglie. La quasi totalità dei focolai è concentrata nel Nord Italia, in particolar modo nella provincia di Verona in Veneto, ma casi sono stati riscontrati anche in Lombardia, Friuli Venezia Giulia e Lazio. I contagi si verificano e diffondono principalmente perché gli animali entrano in contatto con il virus trasportato dagli uccelli selvatici, che tuttavia trova terreno fertile anche a causa delle condizioni di sfruttamento negli allevamenti. In passato le epidemie di aviaria erano rare e concentrate negli allevamenti asiatici, ma quando in Cina emerse il ceppo H5N1 cambiò tutto; a causa degli scarsi controlli, infatti, il virus riuscì a passare alle anatre selvatiche che si ammalavano solo debolmente, permettendo così la diffusione nel resto del mondo attraverso le migrazioni. Nel 2003 il patogeno raggiunse per la prima volta l'Africa e nel 2005 toccò l'Europa, innescando i cicli epidemici che diffondono morte e sofferenza negli allevamenti. Anche se nei luoghi di migrazione vengono adottate misure di contenimento per evitare i contatti tra uccelli selvatici e domestici, basta un semplice stivale sporco proveniente dall'esterno per far penetrare il virus nel cuore di un allevamento, scatenando un letale focolaio.
I virus dell'influenza aviaria ad alta patogenicità in genere uccidono gli ospiti nel giro di un paio di settimane, tuttavia nella maggior parte dei casi vengono sterminati interi allevamenti di animali "sani" per evitare che il virus possa diffondersi ulteriormente. Un'operazione che spesso si basa su metodi cruenti e che provocano una lunga agonia come il soffocamento. Come specificato dalla LAV, a favorire la diffusione del patogeno negli allevamenti vi è anche la densità degli animali, che sono “ammassati in spazi non adeguati” e “resi ciascuno identico agli altri dalla selezione genetica”. Ciò, spiega l'organizzazione, "crea il terreno ideale per la proliferazione di agenti patogeni". "Le difese immunitarie di questi animali, stressati dalle condizioni in cui vivono, sono infatti insufficienti, rendendoli facili prede e veicolo di trasmissione del virus", chiosa la LAV. Alle condizioni di vita inaccettabili degli animali sfruttati negli allevamenti intensivi si aggiunge dunque il rischio epidemiologico, che rappresenta un pericolo significativo anche per la salute pubblica.
Ad oggi, in base ai dati diffusi dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l'influenza aviaria H5N1 ha provocato poco meno di 500 morti a partire dal 1997, ovvero da quando fu registrato il primo caso di un uomo contagiato a Hong Kong. I virus dell'influenza aviaria possono infatti innescare zoonosi per via dello spillover, il salto di specie dall'animale all'uomo, esattamente come avvenuto per il coronavirus SARS-CoV-2 responsabile della pandemia di COVID-19. Non è un caso che nel mirino degli esperti vi sia il famigerato mercato del pesce di Huanan (Huanan Seafood Wholesale Market) a Wuhan, la metropoli cinese da cui tutto è iniziato. Il primo caso ufficiale di COVID-19 riguarda proprio una venditrice di frutti di mare che lavorava presso il mercato, dove si ritiene che il virus possa essere stato diffuso da uno degli animali selvatici venduti tra le bancarelle, la cosiddetta specie serbatoio che non è ancora stata identificata.
Esattamente come avviene con il coronavirus SARS-CoV-2, che continua a mutare dando vita a nuovi lignaggi come la variante Omicron, anche i patogeni dell'influenza aviaria si evolvono negli ospiti, col rischio che diventino più aggressivi e contagiosi. A ottobre di quest'anno, ad esempio, la Cina ha comunicato all'OMS 21 casi di aviaria H5N6, più del quadruplo di quelli dello scorso anno. Negli uccelli selvatici, dove inizialmente il virus H5N1 era a bassa patogenicità, sono sorti ceppi letali che uccidono ogni anno migliaia di esemplari. Al momento, in base ai dati diffusi dall'Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, tra le specie selvatiche colpite in Italia figurano il germano reale, il fischione, il gabbiano reale zampegialle, la gazza euroasiatica, l'oca selvatica e il gheppio, pertanto non si tratta solo di uccelli acquatici. Il pericolo principale per la salute pubblica risiede nel fatto che il patogeno dell'aviaria, tra un salto di specie e l'altra, continui ad accumulare mutazioni sempre più minacciose, fino a dar vita a un ceppo in grado di innescare una nuova pandemia.
Alla luce dell'elevato rischio sanitario, la LAV sottolinea che è necessario interrompere la catena del contagio e che per farlo è fondamentale ripensare “drasticamente il nostro rapporto con gli animali” e “il nostro modo di vivere su questo Pianeta”. L'organizzazione punta innanzitutto il dito contro “l'era dei cloni” negli allevamenti, dove sono imprigionati animali tutti uguali a causa della selezione genetica votata al profitto. Sono infatti "progettati" per sviluppare in poche settimane un innaturale petto sovradimensionato e per produrre un numero enorme di uova; basti pensare che le galline ovaiole ne producono 300 all'anno anziché 30, come avverrebbe in natura. La scarsa variabilità genetica, in associazione all'elevatissima densità degli allevamenti intensivi che catalizza stress e sofferenza, rende gli animali particolarmente suscettibili al rischio di malattie e trasmissione dei patogeni, catalizzando così anche il rischio di focolai di H5N1. Pertanto la LAV chiede di non autorizzare l'apertura di nuovi allevamenti e di spostare i fondi pubblici sulla produzione di alimenti di origine vegetale, preziosi alleati della nostra salute e dell'ambiente.
Per quanto concerne gli animali selvatici, cui dovremmo avvicinarci il meno possibile per molteplici ragioni, la LAV ricorda le misure che sono state introdotte per limitare i rischi di contatto tra animali selvatici infetti e selvatici/domestici non contagiati, come il divieto di utilizzo dei richiami vivi e lo stop al ripopolamento della selvaggina, che tuttavia risultano non sufficienti per prevenire l'eventuale innesco di una potenziale nuova pandemia. In tal senso sarebbe necessario perlomeno limitare l'attività venatoria nelle zone umide, dove giungono gli uccelli acquatici potenzialmente infetti dal virus H5N1. Come evidenziato dallo studio “Can Preening Contribute to Influenza A Virus Infection in Wild Waterbirds?” pubblicato sull'autorevole rivista scientifica PLoS ONE, inoltre, il virus dell'influenza aviaria può essere rilevato anche sul piumaggio degli uccelli, pertanto un cacciatore, manipolando una preda appena uccisa, può essere potenzialmente esposto al rischio di contagio. Si tratta di una eventualità da non sottovalutare ma che al momento non viene ancora contemplata nel principio di precauzione. Rivedere totalmente il nostro rapporto con gli animali e il modo con cui ci approcciamo ad essi è un passaggio fondamentale per evitare che una nuova, catastrofica pandemia possa sorgere all'orizzonte.