Una asintomatica è rimasta contagiosa per almeno 70 giorni e positiva per 3 mesi e mezzo

Una donna americana di 71 anni è risultata positiva al coronavirus SARS-CoV-2 per almeno 105 giorni, inoltre, ha diffuso particelle virali infettive per almeno 70 giorni. Questo, sulla base di quanto è noto al momento in letteratura scientifica, è il periodo più lungo di (potenziale) contagiosità di un paziente colpito dal patogeno emerso in Cina. La donna non ha mai sviluppato la COVID-19 ed è sempre rimasta asintomatica. Si tratta di un caso medico unico, legato fondamentalmente alle condizioni della paziente, immunodepressa a causa di una forma di leucemia a progressione lenta diagnosticatole circa 10 anni fa.
A descrivere il caso peculiare della paziente di Kirkland, città dello Stato di Whashington, è stato un team di ricerca americano guidato da scienziati del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) e dell'ospedale EvergreenHealth, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Dipartimento di Medicina dell'Università di Washington. Tutto ha avuto inizio il 2 marzo, quando la donna fu ricoverata in ospedale per una grave anemia legata alla sua condizione oncologica, una leucemia linfocitica cronica (CCL). Sottoposta come da prassi a tampone rino-faringeo, è risultata positiva al coronavirus SARS-CoV-2, e una rapida indagine ha dimostrato che proveniva da una casa di cura nella quale era scoppiato un focolaio.
La donna, come indicato, è sempre stata asintomatica, ma poiché i suoi tamponi risultavano costantemente positivi (ne ha subiti ben 13), l'esperto di malattie infettive che la seguiva, il dottor Francis Riedo, decise di contattare il collega Vincent Munster, virologo presso i presso i Rocky Mountain Laboratories del NIAID a Hamilton, per sapere se la donna stesse espellendo semplicemente materiale genetico virale inerte o se si trattasse di particelle virali ancora infettive. Come specificato in un comunicato stampa del NIAID, in media la diffusione attiva di virus infettivo dura circa 8 giorni, per i pazienti contagiati dal SARS-CoV-2, tuttavia questo dato può variare molto da persona a persona, in particolar modo per quanto concerne chi è immunodepresso. Attraverso l'analisi dei campioni biologici della donna, è stato infatti determinato che ha espulso virus infettivo per almeno 70 giorni (le particelle avevano la capacità di replicarsi in cellule umane in coltura), mentre ha perso materiale genetico – quello rilevato dal tampone, che non distingue le particelle infettive – per almeno 3 mesi e mezzo, fino a giugno.

Munster e colleghi ritengono che sia rimasta contagiosa per un periodo così lungo a causa della sua condizione di immunodepressa, che le ha impedito di rispondere attivamente contro la replicazione del virus, tant'è che non ha mai prodotto anticorpi contro il patogeno. A scopo precauzionale è stata trattata con plasma ottenuto da un paziente convalescente, ma si ritiene che il trattamento non abbia avuto alcun effetto (comunque non ha mai sviluppato la COVID-19). Gli autori dello studio sottolineano che l'infettività delle persone immunodepresse sia da valutare a fondo, proprio perché potrebbero diffondere a lungo il virus anche senza rendersene conto. Casi simili a quello della paziente di Kirkland sono stati osservati con la comune influenza e la MERS, una patologia provocata da un coronavirus “cugino” del SARS-CoV-2, col quale condivide un'ampia porzione del patrimonio genetico. I dettagli della ricerca “Case Study: Prolonged infectious SARS-CoV-2 shedding from an asymptomatic immunocompromised cancer patient” sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica Cell.