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La variante inglese può essere nata in un paziente Covid positivo per molto tempo

L’ipotesi arriva da uno studio dei ricercatori britannici del CoG-UK sul caso di un paziente immunodepresso con un’infezione persistente: “La mutazione potrebbe essere stata selezionata dalla terapia con il plasma iperimmune”.
A cura di Valeria Aiello
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Gli scienziati non sanno ancora esattamente come si sia originata la variante inglese di Sars-Cov-2. Sulla questione circolano diverse ipotesi, che contemplano la possibilità che sia dovuta a un’infezione trasmessa dall’uomo ad animali che a loro volta hanno contagiato altri uomini, oppure che il nuovo ceppo sia stato importato da un Paese dove non c’è un sistema di sorveglianza come quello britannico. Una diversa tesi arriva dal Regno Unito sembra però convincere maggiormente gli studiosi, riportando la possibilità che la nuova variante possa essersi originata in soggetti a lungo positivi e non in grado di opporre resistenza all’infezione, come le persone immunodepresse.

Come è nata la variante inglese

Secondo quanto indicato in un nuovo lavoro dei ricercatori del Covid-19 Genomics Consortium (CoG-Uk), l’organizzazione che comprende le principali Università britanniche che per prima ha descritto la sequenza genomica del virus mutato, si sospetta che la variante possa essersi originata in individui con un’infezione persistente, poi selezionata da trattamenti quali le infusioni di plasma iperimmune.

Nel dettaglio, in un pre-print pubblicato su MedRxiv i ricercatori hanno descritto il caso di un paziente immunodepresso rimasto a lungo positivo e trattato con plasma di pazienti guariti. “La stragrande maggioranza delle infezioni da SARS-CoV-2 sono generalmente acute e il virus viene eliminato in poche settimane – spiegano il professore Ravindra Gupta e colleghi in una nota – . Nel caso di questo paziente, invece, il virus è stato rilevato in 23 campioni per un periodo di tempo di 101 giorni dal primo test positivo al giorno in cui purtroppo il paziente è deceduto”.

In particolare, i ricercatori hanno osservato che il virus non è mutato in modo rilevabile nei primi 65 giorni, forse a causa della terapia con remdesivir la cui azione è quella di inibire la replicazione virale. Nonostante il trattamento, tuttavia, il paziente non è migliorato ed è stato sottoposto a tre infusioni di plasma iperimmune, due al 65° giorno e una al 98° giorno, che non sono riuscite comunque a eliminare l’infezione virale. “Dopo ogni infusione – scrivono i ricercatori – sono stati osservati importanti cambiamenti nel genoma del virus, con l’emergere della variante virale recante due mutazioni nella proteina Spike: una delezione di due amminoacidi (nelle posizioni 69-70) e una sostituzione dell’amminoacido nella posizione 796 (D796)”.

Alla luce di quanto finora noto sulla variante inglese, le due mutazioni individuate sono tra le più importanti che riguardano la proteina Spike che il virus utilizza per legare le cellule umane e contro cui sono diretti gli anticorpi indotti dai vaccini Covid di Pfizer-BionTech e Moderna. Successivi esami di laboratorio hanno poi indicato che il virus con tali mutazioni aveva “una ridotta sensibilità al plasma iperimmune somministrato al paziente e ai sieri di diversi altri pazienti rispetto al virus non mutato”.

I ricercatori hanno inoltre osservato che il virus mutato riusciva a sfuggire all’attacco degli anticorpi sviluppati dai pazienti guariti dall’infezione provocata dal ceppo di coronavirus originario. “Ciò fornisce la prova di una maggiore possibilità che le mutazioni possano essere originate da infezioni persistenti, della necessità di un attento monitoraggio della loro trasmissione e della possibilità che possano eludere la risposta immunitaria indotta dalla vaccinazione”.

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