Rilevata “robusta risposta immunitaria” nei guariti a 6 mesi dall’infezione da coronavirus

Quando si parla di risposta immunitaria in seguito all'infezione di un patogeno, come la COVID-19 scatenata dal coronavirus SARS-CoV-2, vengono subito in mente agli anticorpi, proteine specializzate che si sviluppano in seguito al contagio e che attaccano direttamente l'invasore. In realtà gli anticorpi (o immunoglobuline) rappresentano solo una delle “armi” a disposizione del sistema immunitario, che risponde in modo variegato e complesso all'aggressione. Un'altra freccia nell'arco del nostro organismo è rappresentata dalla cosiddetta risposta cellulare, ad esempio rappresentata dalle cellule T (o linfociti T), che oltre a contrastare l'infezione in atto coadiuvano la memoria immunitaria, riducendo il rischio di reinfezione. Ebbene, nel più grande studio condotto sulle cellule T in pazienti contagiati dal coronavirus, è emerso che esse non solo sono presenti in ciascun positivo (asintomatici compresi), ma sono rilevabili anche a 6 mesi di distanza dall'infezione. Ciò significa che i linfociti T potrebbero ridurre in modo significativo il rischio di contagiarsi nuovamente col patogeno (benché alcuni casi di reinfezione sono già noti).
A determinare che la COVID-19 determina una robusta risposta cellulare con la formazione di cellule T è stato un team di ricerca britannico guidato da scienziati della Public Health England e dello UK Coronavirus Immunology Consortium (UK-CIC), che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi della NIHR Manchester Clinical Research Facility. I ricercatori, coordinati dal professor Paul Moss, docente presso l'Università di Birmingham e a capo del consorzio britannico, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato le concentrazioni di cellule T nel siero e nel sangue di circa 2mila operatori sanitari, cento dei quali risultati positivi al coronavirus SARS-CoV-2. Sono stati tutti sottoposti al tampone rino-faringeo tra marzo e aprile di quest'anno, durante la prima, drammatica ondata di infezioni. L'età media era di 41 anni e nella maggior parte dei casi si trattava di donne (77, contro soli 23 uomini).
Tutti i partecipanti allo studio risultati positivi hanno avuto sintomi lievi o moderati, e ben in 56 erano del tutto asintomatici. Nessuno ha avuto bisogno del ricovero in ospedale. I campioni biologici prelevati sono stati sottoposti a esami di laboratorio chiamati ELISPOT o ICS, grazie ai quali è stato possibile rilevare le concentrazioni delle cellule T. Ebbene, come indicato, in tutti è stata identificata una robusta risposta cellulare a 6 mesi di distanza dal contagio (cellule T CD4 + con forte espressione di citochine IL-2). Il livelli più alti di cellule T – fino al 50 percento – sono stati osservati nei pazienti sintomatici, dunque una malattia più rilevante determina una risposta cellulare maggiore. La risposta era rivolta verso varie proteine del coronavirus SARS-CoV-2, compresa la proteina S o Spike, quella utilizzata dal patogeno per legarsi al recettore ACE2 delle cellule umane, disgregare la parete cellulare, riversare l'RNA virale all'interno a avviare il processo di replicazione, che è alla base dell'infezione. Gli scienziati hanno rilevato una risposta affine anche verso la nucleoproteina, un'informazione preziosa per mettere a punto vaccini anti COVID potenzialmente più efficaci.
“La nostra conoscenza dell'infezione da SARS-CoV-2 è in continuo aumento. Sebbene i nostri risultati ci inducano a essere cautamente ottimisti sulla forza e sulla durata dell'immunità generata dopo l'infezione da SARS-CoV-2, questo è solo un pezzo del puzzle. C'è ancora molto da imparare prima di avere una piena comprensione di come funziona l'immunità alla COVID-19”, ha dichiarato il professor Moss. I dettagli della ricerca “Robust SARS-CoV-2-specific T-cell immunity is maintained at 6 months following primary infection” sono stati pubblicati sul database online BiorXiv.