Primi casi di COVID nelle grandi scimmie: infettati i gorilla di uno zoo
Presso lo zoo di San Diego, uno dei più grandi al mondo, sono stati registrati i primi casi naturali di infezione da coronavirus SARS-CoV-2 nelle grandi scimmie. Nello specifico, sono stati contagiati almeno tre gorilla della sezione “Gorilla Troop” del giardino zoologico americano, nel quale sono ospitate oltre 800 specie differenti. Il contagio nei grandi primati non umani è fra le principali preoccupazioni per gli esperti, non solo perché nella maggior parte dei casi si tratta di specie minacciate di estinzione, come lo sono appunto i gorilla (alcuni in modo critico), ma anche perché non si sa come il patogeno possa colpire questi animali. È noto ad esempio che il semplice virus del raffreddore umano può determinare un'infezione letale negli scimpanzé, pertanto sin da quando il coronavirus ha iniziato a diffondersi nel mondo sono stati applicati rigidi controlli per tutelare la salute della fauna selvatica, e in particolar modo quella delle scimmie.
La positività dei gorilla è stata rilevata l'8 gennaio in seguito all'analisi dei campioni fecali inviati al California Animal Health and Food Safety Laboratory System (CA HFS), e successivamente è stata confermata dai controlli dei National Veterinary Services Laboratories (NVSL) che fanno campo al Dipartimento dell'Agricoltura statunitense. I veterinari del San Diego Zoo Safari Park hanno deciso di procedere con i test dopo aver osservato due esemplari con i sintomi della COVID-19, ovvero un po' di tosse e congestione nasale. Un terzo esemplare sta manifestando sintomi, ma si ritiene che tutto il gruppo sia stato esposto al virus ed è probabile che vi siano altri casi di positività asintomatica. Secondo lo staff dello zoo a infettare i gorilla sarebbe stato un custode positivo e asintomatico che si occupa della sezione in cui sono ospitati. Questo nonostante i rigidi protocolli introdotti da quando è scoppiata la pandemia, che prevedono l'accesso ai recinti solo con dispositivi di protezione individuale (mascherine), tute da lavoro specifiche, frequente lavaggio delle mani e una distanza dagli animali superiore a quella che si rispetta normalmente. “ Il fatto che, nonostante questi protocolli, la trasmissione sembri avvenuta evidenzia la sfida che tutti dobbiamo affrontare insieme alla lotta contro questo virus altamente contagioso”, ha scritto lo zoo in una nota.
Al momento le condizioni dei gorilla non destano alcuna preoccupazione e i veterinari sono convinti che si riprenderanno pienamente dall'infezione, ma naturalmente vengono costantemente monitorati e lo staff è pronto a intervenire in caso di necessità. Gli esperti sono in contatto anche con i medici per capire quali potrebbero essere le migliori soluzioni per trattare i gorilla, nel caso in cui le loro condizioni dovessero aggravarsi. La speranza, naturalmente, è che tutti gli animali coinvolti si riprendano al più presto. Non c'è alcun pericolo che possano trasmettere il virus ai visitatori perché il parco è chiuso dallo scorso 6 dicembre, inoltre la distanza dai gorilla e l'introduzione di nuove barriere non avrebbero fatto correre il minimo rischio.
I gorilla non sono gli unici animali infettati in uno zoo dal personale. Nei mesi scorsi, in uno zoo nello Stato di New York sono stati contagiati diversi grandi felini, tra leoni e tigri, animali particolarmente suscettibili al virus come il gatto domestico. Uno studio internazionale condotto dall'Università della California di Davis ha dimostrato che sono oltre 400 le specie che possono essere potenzialmente colpite dal coronavirus SARS-CoV-2, e le grandi scimmie rappresentano quelle a rischio più elevato assieme ai mammiferi marini come delfini e balene, a causa della somiglianza molecolare tra il recettore ACE-2 di questi animali (quello cui si lega la proteina S o Spike del virus) e quello umano. Come evidenziato da un altro studio guidato dalla virologa Ilaria Capua, tra i principali rischi della diffusione del virus negli animali selvatici vi è quella dell'emersione di una panzoozia, una perdita di controllo proprio perché presente in numerose specie, nelle quali può continuare a mutare e saltare nuovamente all'uomo, con potenziali conseguenze sull'efficacia dei vaccini e sulla pericolosità della malattia. È la ragione per cui in Danimarca si è deciso di uccidere oltre 17 milioni di visoni negli allevamenti, dove il virus ha iniziato a circolare, è mutato ed è ripassato all'uomo.