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Piazza Fontana, la verità negata

Nel pomeriggio del 12 dicembre 1969 un ordigno esplode nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, uccidendo 17 persone e ferendone 86: è l’inizio della “strategia della tensione”.
A cura di Nadia Vitali
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Nel pomeriggio del 12 dicembre 1969 un ordigno esplode nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, uccidendo 17 persone e ferendone 86: è l'inizio della "strategia della tensione".

Mancavano una decina di giorni a Natale e a Milano si respirava aria di festa; un venerdì pomeriggio, il giorno del mercato dei coltivatori, in cui la Banca Nazionale dell'Agricoltura avrebbe chiuso i suoi sportelli non alle 16.30, come faceva durante il resto della settimana, bensì più tardi, fino a quando i presenti nella sede di Piazza Fontana non avessero posto fine a tutte le contrattazioni. Un centinaio di clienti e settanta impiegati indaffarati nella grande sala circolare, attorno ad un tavolo ottagonale che troneggia al centro della stanza; lì sotto qualcuno posò una borsa, passando inosservato nella confusione e scomparendo nell'aria grigia di quel 12 dicembre 1969.

Alle 16.37 la valigetta, in cui ci sono più di sette chili di gelignite, scoppia: in un istante in quella banca del centro di Milano l'inferno diventa realtà. Le fiamme vanno verso il basso, provocando un buco nel pavimento al di sotto del tavolo e verso l'alto, uccidendo, distruggendo e devastando; esplodono porte e vetrate, proiettando pezzi di vetro ed oggetti che colpiscono i presenti in sala ma che giungono anche in strada, mentre due corpi vengono addirittura lanciati fuori dallo spostamento d'aria. Chi poteva correva verso l'esterno, i feriti si riversarono sulla piazza; decine di ambulanze accorsero. Le persone uccise immediatamente dalla violentissima esplosione furono dodici, ma col passare del tempo il bilanciò sali: in seguito all'attentato di Piazza Fontana morirono 17 persone mentre 86 furono i feriti, tra clienti della banca, impiegati e passanti.

Circa dieci minuti prima nella sede milanese di piazza della Scala della Banca Commerciale Italiana veniva ritrovato un ordigno inesploso contenuto in una borsa dello stesso tipo di quella che sarebbe scoppiata alla Banca Nazionale dell'Agricoltura: la bomba, che poteva fornire importanti elementi sull'origine del materiale utilizzato per Piazza Fontana tracciando una pista da seguire che giungesse fino agli autori materiali della strage, venne fatta brillare, distruggendo le testimonianze che poteva contenere; nel 2005 la Corte di Cassazione giudicò la decisione «deprecabile e sorprendente». In quello stesso pomeriggio tre attentati si verificarono anche a Roma: alle 16.55 uno scoppio nel piano seminterrato della Banca Nazionale del Lavoro di Via Veneto in cui vengono ferite 14 persone. Tra le 17.22 e le 17.30 due bombe vicino all'altare della patria, con ulteriori quattro feriti. Era l'inizio della strategia della tensione.

L'Italia che stava crescendo, investita dall'ondata di ottimismo del boom economico, il paese in cui i giovani scendevano in piazza per costruirsi un futuro migliore, libero dalle pesanti eredità di un passato ormai sterile, la fiorente ed operosa città di Milano addobbata a festa con le luci natalizie e le vetrine che mostravano mercanzie sfavillanti, finalmente acquistabili da tutti: questa la realtà quasi magica che quella bomba ridusse in frantumi. A partire dal 12 dicembre 1969 l'Italia, inevitabilmente e rapidamente, mutò il proprio volto: la fiducia nell'avvenire dovette cedere il passo al sospetto e alla paura, la libertà che reclamavano i giovani a gran voce venne imprigionata dalla gabbia degli estremismi. La violenza divenne la protagonista dei successivi quindici anni e a partire da subito, quando l'anarchico Giuseppe Pinelli precipitò da una finestra del 4° piano della Questura di Milano il 15 dicembre di quel 1969: fermato assieme ad un'altra ottantina di «sospetti», venne trattenuto negli uffici oltre il limite previsto dalla legge. Non si seppe mai come e perché volò giù.

Suicidi presunti, testimonianze più o meno attendibili, confessioni ed accuse, sette processi per arrivare ad un solo verdetto, nessun colpevole e l'ultima beffa nel 2005 quando la Cassazione, nell'assolvere gli imputati Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni militanti di Ordine Nuovo condannati in primo grado all'ergastolo, obbligò i parenti delle vittime al pagamento delle spese processuali. Procedura prevista dalla legge ma che, inevitabilmente, attirò critiche unanimi, anche da figure legate alle istituzioni. Per aver nascosto e taciuto colpe e colpevoli nessuno ha mai pagato.

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