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Perché si muore di anoressia

Per comprendere meglio cos’è l’anoressia nervosa, com’è possibile che questa patologia possa uccidere ancora oggi e cosa si fa in Italia per contrastarla abbiamo intervistato il professor Umberto Nizzoli, Presidente della Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare (SISDCA). Ecco cosa ci ha raccontato l’esperto.
A cura di Andrea Centini
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L'anoressia nervosa figura tra i principali disturbi del comportamento alimentare, e benché possa colpire praticamente in ogni fascia di età, ha sostanziali picchi di incidenza negli adolescenti. La prevalenza in Italia sarebbe compresa tra lo 0,5 e il 2 percento, in base ad alcuni studi epidemiologici. Si tratta di una malattia e non va confusa col termine generico di “anoressia”, condizione che si riferisce al rifiuto di alimentarsi per diverse ragioni. È un disturbo che nella stragrande maggioranza dei casi coinvolge la popolazione femminile, tuttavia può interessare anche quella maschile, come dimostra il drammatico caso di Lorenzo Seminatore, ragazzo di Torino morto a venti anni dopo una lotta contro la patologia iniziata quando ne aveva quattordici. Per comprendere meglio cos'è l'anoressia nervosa, cosa si fa in Italia per contrastarla e come sia possibile morire per questa condizione abbiamo intervistato il professor Umberto Nizzoli, Presidente della Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare (SISDCA). Ecco cosa ci ha raccontato.

Professor Nizzoli, innanzitutto le chiedo di spiegarci cos'è l'anoressia

La nostra società ha nel suo acronimo “anoressie”, “bulimie”, perché l'omologazione all'interno di un quadro clinico rende poca giustizia ai dati della realtà. L'anoressia nervosa si distingue dalle altre patologie cliniche per la ragione di avere un'idea di avere un peso eccessivo, anche in presenza di un peso ancora conforme con quelli che sono i parametri della cosiddetta “normalità” con le misurazioni dell'indice di massa corporeo. Di avere perciò il desiderio di dimagrire, di avere una insistente condotta di controllo rispetto al cibo. E una pervicace attenzione al proprio corpo con l'idea di poterlo dominare e controllare, sopprimendo tutte quelle che sono le sue formazioni di desiderio: di cura, di cibo, di alimentazione. Questa è l'anoressia nervosa. Quando è di grado medio porta a delle condizioni che sono quelle che più spesso gestiscono i servizi clinici; quando è di grado lieve porta a delle patologie di restrizione che nascono attorno a delle forme più o meno rigide di dieta, come quelle che fanno molti adolescenti.

Le forme lievi sono quelle che prendono piede dall'insistenza di diete molto controllanti, mentre invece quelle severe, gravi, sono quelle che poi portano a casi che possono emergere anche sui giornali. Sono quelle in cui l'individuo mantiene insistentemente, pervicacemente e prolungatamente questa ideazione, e questo lo mette anche in una condizione di impoverimento di tutti i suoi organi, del tessuto muscolare, del tessuto osseo. Ne subiscono tutte le sue fisiologie fino a poter arrivare all'estremo dell'arresto cardiaco. Che è provocato appunto dall'anoressia prolungata, nervosa, restrittiva e severa.

A che età insorge l'anoressia nervosa?

La larga parte delle anoressie nervose insorge nell'arco di anni che va tra i 13 e i 16, per cui si spalmano come una curva di Gauss. A partire dall'undicesimo/dodicesimo anno e poi entrano in diminuzione del tasso di prevalenza dopo il ventitreesimo anno di età. Quindi la curva maggiore è attorno ai 16 anni. L'anoressia nervosa può capitare in tutte le fasi della vita, anche in fase molto avanzata, anche se è molto remota.

Cosa si fa per contrastare l'anoressia nervosa, anche alla luce dei potenziali esiti infausti?

Quando ci sono queste situazioni così gravi si apre un discorso per il quale si è già provato più volte a dibattere, è un tema che all'ordine del giorno non è risolto. Si pensa se sia possibile fare il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) con i pazienti. Queste persone conservano tuttavia la capacità di intendere e di volere, e nel nostro Paese non si possono fare cure obbligatorie. Spesso l'individuo è ostile alle cure e quindi trovi a incocciare il suo rifiuto, che è il pervicace mantenimento della sua strategia di ipercontrollo, con anche il rischio materiale che possa esserci un decesso. Del resto è la patologia col più alto tasso di mortalità tra i disturbi mentali che riguardano i giovani. La responsabilità che vorresti assumerti è quella di fare un trattamento forzato, ma è problematico, perché è contro la legge.

Ci vorrebbe una legge ad hoc, come quella proposta da un onorevole nella legislazione passata che si chiamava Moretto. Propose il TSO ma non se ne fece nulla. Per la ragione che appunto, globalmente il TSO non è permesso, e quindi incoccerebbe contro le attuali norme. Ma vanno considerati anche gli effetti del TSO negli studi che sono stati fatti, laddove è stato applicato; ti dicono che tu hai un miglioramento delle condizioni della persona nel breve, medio periodo, e poi hai un riaggravamento a distanza. Il che vuol dire che tu superi il periodo di crisi, di rischio, ma a 6, 12 mesi la persona si ripresenta con una sintomatologia anche più acuta e quindi sei candidato a un nuovo TSO, con una sequenza di TSO che si susseguono.

Quando c'è questa circostanza l'altro effetto collaterale che si è visto è che aumenta lo stato depressivo dei pazienti e aumentano i suicidi. Quindi mettere sui due piani “è meglio fare il TSO così scongiuro il rischio di morte incipiente” e “non faccio il TSO”, è veramente molto, molto problematico. Può essere ragionato solo sul singolo caso e non con dei proclami e con delle prese di posizione con delle normative generali e assolute. Quindi rimane un argomento che tiene in via il fatto che tu dovresti riuscire a stabilire un rapporto di cura con le persone, di confidenza, di condivisione, per cui c'è un'alleanza, una micro-alleanza terapeutica. Se non esistono queste condizioni diventa veramente molto difficile poter operare.

Com'è possibile che in Italia nel 2020 si possa morire di anoressia

Si muore in Italia così come in altri Paesi. L'anoressia, purtroppo, è esattamente il quadro per cui il tasso di mortalità è il più elevato tra tutte le patologie mentali e tra tutte le cause nel caso di adolescenti. Quindi siamo di fronte a una enorme sfida che fa capire che mancano un sacco di circostanze. Perché se ci fosse una formazione, una sensibilità, si potrebbe fare un'attività di prevenzione molto più diffusa di quella che si fa, a partire dalle famiglie, devo dire. Poi ovviamente coinvolgendo tutto il mondo della formazione, delle scuole, delle agenzie sportive, della parrocchie. Ovviamente i pediatri di libera scelta, i medici di medicina generale. L'evitare certi comportamenti che possono favorire lo sviluppo di questa patologia.

Il problema grosso di queste patologie è che quando arrivano ad avere queste dimensioni hanno una storia, quindi sono create nel tempo e potevano essere intercettate prima. Si sa che quanto prima le intercetto tanto più alto è l'indice di guarigione. Se anziché portarmi una ragazza anoressica da tre anni me ne porti una che ha iniziato una storia di tendenza all'anoressia da tre mesi, l'impegno delle cure e l'esito e delle cure è molto diverso. È ovvio che lì ci vorrebbe personale, in particolare quello sanitario di base (quindi medici di famiglia, di medicina generale, i pediatri di libera scelta e i servizi pubblici) che avesse una formazione specifica che purtroppo in Italia non c'è. Mi dà un'occasione. Vede, da pochi giorni noi di SISDCA assieme all'Università Sapienza di Roma nella sua forma online abbiamo aperto il primo Master di secondo livello sui disturbi dell'alimentazione. È la prima offerta formativa di secondo livello che si rivolge quindi ai professionisti che vogliono avvicinare a questa materia e possono così intercettarla precocemente. Se riuscissimo a creare queste condizioni sarebbe un grande beneficio anche per tutto il nostro Paese.

Due anni fa si è lanciato il “codice Lilla”, l'intenzione di poter identificare queste persone affinché possano ricevere un percorso assistenziale specifico nei pronto soccorso ospedalieri. Però diciamocelo, tra l'idea – che è buona – e la possibilità di trovare effettivamente personale infermieristico e medico con una competenza specifica quando non c'è una formazione specifica in nessun corso universitario, lei capisce che è un'opera di divulgazione, di formazione e sensibilizzazione molto lunga, molto grande, che dovrebbe riguardare i governi, le Regioni e le diverse agenzie. Ma va fatta. Perché quando tu arrivi alle situazioni estreme sono quelle che ti allarmano, ma la situazione estrema cosa ti dice: che spesso è mancata tutta la parte precedente. Quindi si è creta una circostanza gravissima perché non ci sono le condizioni per poter cercare di attenuarla, anticiparla, ridurla.

Quindi c'è un vuoto normativo che si accompagna a quello formativo

Sì, il vuoto formativo è esteso. Perché va dalla formazione dei genitori, – che sono tra i fattori, non sono l'unico fattore ma sono tra i fattori nella formazione della malattia – alle scuole, per cui agli insegnanti, alle varie associazioni sportive, ai ritrovi giovanili, alle parrocchie, ai medici di medicina generale. Il livello di diffusione formativo è molto ampio e molto importante. L'aspetto normativo è soprattutto di sostegno. Occorre un piano nazionale. Qui stiamo parlando di una patologia con un tasso di mortalità mediamente di otto volte per stessa età e stessa identità di genere. Se tu hai una figlia con l'anoressia nervosa, ha otto volte la probabilità maggiore di morire per anoressia nervosa di tutte le altre ragazze che conosci nel paese. Rispetto a questo dato non c'è una pari sensibilità; possibile che non ci sia un insegnamento specialistico nelle lauree specialistiche sui disturbi alimentari? C'è un divario fra lo stato di consapevolezza, di sensibilità e di formazione e la severità della patologia. Questa è la realtà. Ci battiamo per aumentare la sensibilità, la consapevolezza e l'attenzione. È un po' come fare “al lupo al lupo” quando c'è un caso estremo. Il dolore delle persone non solo va capito, ma anche sostenuto. Meritoriamente questi genitori fanno un appello perché dimostrano una grande consapevolezza, sono ammirevoli. Noi dovremmo far tanto per anticipare e contenere queste patologie. Questo dovrebbe essere il messaggio.

L'anoressia è sempre una patologia che interessa maggiormente la popolazione femminile?

Lo è tuttora, lo è tuttora. È prevalentemente femminile. La relazione tra maschi e femmine è dell'ordine di uno a sette. Per cui tu hai sette ragazze e un ragazzo. Il fenomeno interessante, dal punto di vista conoscitivo, però è che la presenza dei maschi tende a crescere. E quindi vi è un aumento della diffusione dell'anoressia e dei quadri anoressici nei maschi. Si sta riducendo il gap di differenza che c'è dalle femmine, che rimangono tuttavia nettamente prevalenti. L'anoressia nervosa nelle situazioni maschili è ancora più grave; quando si manifesta su una popolazione che è tendenzialmente più periferica è ovvio che ci sono delle componenti che la rendono possibile e che ne determinano un aggravamento consistente. Ci vorrebbe una sensibilità, una rete di formazione particolare fra nutrizionisti, medici internisti, psichiatri e psicologi con competenze già specifiche, per formare dei team multidisciplinari per poter intercettare una patologia così multidimensionale. Ci basiamo su esperienze meritevoli, importanti, però sono esperienze, non è il sistema sanitario-Paese. Ci sono alcune realtà che emergono di spicco e di valore, noi ne rappresentiamo tante nella nostra società, ma tra averne tante e rappresentare il sistema sanitario-Paese è un'altra storia.

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