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Perché non possiamo riportare in vita i dinosauri

Il sogno di Jurassic Park sembra destinato a rimanere tale: impossibile recuperare DNA più vecchio di 10mila anni.
A cura di Roberto Paura
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Mentre a Hollywood fervono i lavori per il nuovo film della saga di Jurassic Park, in uscita nel 2015, la scienza frena ancora una volta i sogni di tutti coloro che sono cresciuti con i dinosauri immaginati dallo scrittore Michael Crichton e dal regista Steven Spielberg. Nonostante infatti negli ultimissimi anni siano stati fatti passi da gigante sulla strada che riporterà in vita animali estinti come il Mammut, con i dinosauri è tutta un’altra storia. Una storia che ha inizio circa venticinque anni fa, quando per la prima volta si è ipotizzato di poter recuperare il paleo-DNA dei grandi rettili del passato e utilizzarlo per produrre in laboratorio un vero dinosauro.

Estrarre frammenti di paleo-DNA

La scoperta, nei primi anni ’80, della reazione a catena della polimerasi (PCR), una metodica in grado di amplificare frammenti di acidi nucleici per ricostruire l’intero filamento di DNA, aveva colpito l’immaginazione di numerosi paleontologi, convinti della possibilità di poter ricostruire paleo-DNA a partire dai pochi frammenti sopravvissuti fino a oggi. Attualmente le strutture genetiche più antichi arrivate in buono stato di conservazione fino ai nostri giorni risalgono a circa 13mila anni fa. Ma i dinosauri si sono estinti ben 65 milioni di anni prima. Troppo per sperare di poter mai recuperare l'intero genoma. La PCR sembrava una possibile soluzione. Nel 1990 un gruppo di ricercatori guidati dal paleontologo Edward Golenberg riuscì a utilizzare la metodica per ricostruire quantità significative di paleo-DNA estratto da una pianta fossile del Miocene (circa 20 milioni di anni fa). L’obiettivo della ricerca non era quello di riportare in vita questo tipo di piante, ma di comparare il loro genoma con quello delle specie attuali, per ricostruirne la storia genetica.

No, questa è solo una ricostruzione.
No, questa è solo una ricostruzione.

Più o meno in quegli stessi mesi, proprio mentre usciva in tutte le librerie il romanzo Jurassic Park, vennero annunciate due scoperte più clamorose: la prima riguardava l’estrazione di DNA da una termite vecchia di quasi 30 milioni di anni fossilizzata all’interno di un pezzo di ambra; la seconda annunciava un analogo successo con l’estrazione di DNA da un coleottero fossilizzato nell’ambra. L’immaginazione corse subito alla famosa zanzara rimasta invischiata nella resina fossilizzatasi, da cui gli scienziati del romanzo di Crichton estraggono il sangue succhiato dai dinosauri. Ma nel 1993, in concomitanza con l’uscita nei cinema del film di Spielberg, un articolo dello scienziato svedese Tomas Lindahl gettava acqua sul fuoco. Anche nelle migliori condizioni di conservazione, faceva notare il biologo, il DNA può conservarsi al massimo per 100mila anni. Anche applicando la metodica della PCR, il gioco non valeva la candela: i frammenti recuperati non potevano essere utilizzati per ricostruire l’intera sequenza genomica, e lo sforzo non avrebbe avuto altro risultato che la distruzione dell’esemplare fossile. Un’analisi retrospettiva dimostrò che quasi tutti i frammenti recuperati negli ultimi tre anni erano in realtà degli abbagli.

Limite di 10.000 anni

Con un salto di vent’anni arriviamo a pochi giorni fa, quando su PLoS ONE è stato pubblicato un articolo a firma di un gruppo di ricercatori dell’Università di Manchester guidato da
David Penney che sembra chiudere la questione. La ricerca consisteva nell’estrazione di paleo-DNA da insetti racchiusi all’interno di pezzi di copale, una resina fossile simile all’ambra ma più “giovane”. Stiamo parlando quindi di epoche molto vicine a noi, poco più di 10mila anni fa, quindi in pieno “Antropocene”, l’era geologica in cui è comparsa la civiltà umana. Il team è riuscito nell’impresa, in alcuni casi riuscendo anche a non danneggiare l’esemplare. Ma quello che hanno recuperato è ben lontano dall’essere l’intero genoma. Nel migliore dei casi sono state estratte sequenze isolate di circa 500 nucleotidi, laddove il genoma di un’ape (l’insetto analizzato nel caso specifico) conta circa 300 milioni di nucleotidi. Numeri assolutamente non confrontabili.

Continueremo a vederli così... (esemplare di giovane T-Rex al Museo di Storia Naturale di Los Angeles)
Continueremo a vederli così… (esemplare di giovane T-Rex al Museo di Storia Naturale di Los Angeles)

“A livello intuitivo, si potrebbe immaginare che il rapido e completo invischiamento nella resina, che provoca un decesso quasi istantaneo, possa favorire la conservazione di DNA in un insetto fossilizzato con la resina, ma ciò non sembra avvenire”, sottolinea David Penney sul quotidiano britannico The Telegraph. “Perciò, sfortunatamente, lo scenario di Jurassic Park è condannato a restare nel reame della fiction”. Per chi sogna comunque di riportare in vita animali estinti, ben più recenti dei dinosauri, non mancano invece soddisfazioni. Progetti per clonare i Mammut sono già allo stadio di sviluppo, e con loro molti esemplari della megafauna scomparsa alla fine dell’ultima era glaciale, oltre alle tantissime specie che l’uomo ha portato all’estinzione. Ma, per quanto riguarda i dinosauri, continueremo a vederli solo nei musei. O al massimo al cinema.

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