Perché in Svezia ci sono stati meno morti per COVID nelle unità di terapia intensiva
Il caso della Svezia resterà emblematico nella storia della pandemia di COVID-19, essendo stato tra i pochissimi Paesi a non aver imposto lockdown e altre misure restrittive durante la prima ondata di contagi, mentre il resto del mondo si chiudeva a riccio. Questa strategia non ha dato i suoi frutti, e ha fatto fallire miseramente la ricerca all'agognata immunità di gregge, determinando invece impennate di contagi, tassi di ricovero alle stelle e numerosi decessi nella seconda fase. Non a caso lo scorso autunno anche il re di Svezia ha aspramente criticato le scelte scellerate del governo, che è alla fine del 2020 è corso ai ripari introducendo norme per il distanziamento sociale e multe per i trasgressori. Ma nonostante la linea soft, durante la prima ondata il tasso di mortalità nei reparti di terapia intensiva (ICU) degli ospedali svedesi è stato migliore di quello osservato in altri Paesi.
A dimostrarlo un team di ricerca guidato da scienziati del Dipartimento di Scienze biomediche e cliniche dell'Ospedale universitario di Linköping, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Dipartimento di anestesia e terapia intensiva dell'ospedale di Vrinnevi, dell'Agenzia per la salute pubblica della Svezia (AT) e dell'Ospedale universitario di Umeå. Gli scienziati, coordinati dalla professoressa Michelle Chew, esperta di terapia intensiva e vicedirettrice dell'European Journal of Anaesthesiology, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato i casi di 1563 ricoveri nelle ICU di diversi ospedali svedesi tra il 6 marzo e il 6 maggio 2020, tutti adulti con COVID-19 confermata da esami di laboratorio.
Il tasso di mortalità registrato per i pazienti ricoverati in terapia intensiva è stato del 23 percento, superiore a quello rilevato in Islanda (15 percento) ma inferiore a quanto osservato in Danimarca (37 percento), America del Nord( 35 percento ), da uno studio francese, belga e svizzero (tra il 26 e il 30 percento) e in Lombardia, dove si è arrivati a un tasso di mortalità del 49 percento durante la prima, catastrofica ondata. Secondo uno studio di revisione che ha coinvolto diverse ricerche in tutto il mondo, il tasso di mortalità medio nelle ICU per COVID-19 è stato del 42 percento durante la prima ondata. Nell'indagine svedese è stato determinato che essere uomini raddoppiava il rischio di morire in terapia intensiva, mentre sviluppare una grave insufficienza respiratoria lo triplicava. La presenza di malattie pregresse e l'obesità non risultavano invece essere associate a un rischio maggiore di morire nelle ICU. Il tasso di ipossia (ovvero la carenza di ossigeno) nei pazienti svedesi ricoverati risultava essere più alto rispetto a quello riscontrato in altri Paesi, ciò significa che arrivavano in ospedale in condizioni molto più gravi. I pazienti con un'età superiore agli 80 anni avevano una probabilità di morire per COVID-19 sette volte superiore rispetto a quelli con un'età pari o inferiore ai 50 anni, ciò nonostante non tutti gli ultraottantenni perdevano la vita. Pertanto gli scienziati raccomandano che, in casi di criticità nel numero di posti letto, i soggetti anziani non devono essere esclusi a priori dalle cure intensive, ma va sempre valutato caso per caso.
Secondo gli autori dello studio, la ragione per cui in Svezia si sono registrati meno decessi nelle ICU rispetto ad altri sarebbe legata all'organizzazione e alla gestione dell'emergenza all'interno degli ospedali, oltre al fatto che nel Paese nordico Anestesiologia e Terapia intensiva sono specialità combinate, e i medici specializzati avevano una preparazione migliore per affrontare certe dinamiche di cura. “Riteniamo che l'organizzazione abbia probabilmente contribuito ai risultati relativamente buoni visti nelle unità di terapia intensiva svedesi, poiché il personale, l'equipaggiamento protettivo, la disponibilità di farmaci, le attrezzature mediche e tecniche sono stati considerati in una fase iniziale a livello ospedaliero e regionale”, hanno dichiarato Chew e colleghi. Inoltre, come specificato in un comunicato stampa, all'inizio del 2020 in Svezia c'erano 5,1 posti letto in terapia intensiva ogni 100.000 abitanti, contro i 27 su 100.000 negli Stati Uniti. Con la diffusione del virus, tuttavia, i posti letto sono stati aumentati in modo significativo, sino ad arrivare a 1.100 nel momento di massima disponibilità, e non sono mai stati completamente occupati durante la prima ondata.
I ricercatori sottolineano che sebbene durante la prima ondata il tasso di mortalità nelle unità di terapia intensiva è stato generalmente inferiori rispetto a quello osservato in altri Paesi, la popolazione “non è stata immune dall'aumento dei tassi di infezione questo inverno” a causa della strategia adottata dal governo, e dunque non si può sapere se in futuro il sistema sanitario svedese riuscirà a reggere a ulteriori ondate di contagi. Del resto oggi è proprio il governo svedese a sottolineare che la situazione è grave. I dettagli della ricerca “National outcomes and characteristics of patients admitted to Swedish intensive care units for COVID-19” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica European Journal of Anaesthesiology.