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Perché è rischioso mandare tutti i vaccini Covid nelle zone con più contagi

Fa discutere la proposta del Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana che ha chiesto priorità di vaccinazione nelle provincie di Bergamo e Brescia. Con la carenza di dosi necessarie, la rimodulazione inciderà sulla campagna di immunizzazione e sulle scorte vaccinali, con il rischio determinato dal ritardare i tempi tra la prima e la seconda iniezione.
A cura di Valeria Aiello
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Priorità di una prima dose di vaccino anti-Covid nei territori dove il virus è in crescita per fermare il contagio. Questa in sintesi la proposta avanzata Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana nella Conferenza Stato Regioni con il Ministro della Salute Roberto Fontana e la neo Ministra per gli Affari Regionali Mariastella Gelmini. La richiesta è che ci sia “una consegna immediata di vaccini” nei Comuni al confine tra le province di Bergamo e Brescia e per i comuni della Lombardia in zona rossa, dunque priorità di vaccinazione per gli abitanti di questi territori, insieme alla richiesta di “prolungare i tempi tra la prima e la seconda dose”, arrivata con la presentazione del piano vaccinale aggiornato.

Tutti i vaccini alle zone con più contagi

La priorità riguarderà circa 30mila abitanti tra i 60 e 79 anni di 15 comuni bergamaschi e 8 bresciani e per i comuni in fascia rossa, dove il contagio dilaga anche a causa delle varianti. “La coperta è corta” ha avvertito il responsabile della campagna vaccinale della Lombardia Guido Bertolaso, perché con l’attuale carenza di vaccini “dovremo rallentare la fase 1 bis per quanto riguarda le attività sociali”.

Con la rimodulazione per l’emergenza focolai, rallenteranno dunque le somministrazioni per le categorie finora in attesa e slitteranno ancora le vaccinazioni del personale scolastico (ad eccezione di Bollate) nel resto della Lombardia, dove la nuova strategia di immunizzazione andrà ad incidere, tra l’altro, anche sulle scorte vaccinali, circa il 30% delle dosi consegnate. Queste verranno azzerate, con il rischio di ritardare i tempi del richiamo per chi ha già avuto la prima dose.

Proprio su questo aspetto, la Lombardia ha richiesto di estendere l’intervallo di tempo tra la prima e la seconda dose, ovvero di “portare la seconda dose a 10-12 settimane sia per Astrazeneca sia per Pfizer e Modernaha spiegato la vicepresidente Letizia Moratti. Una richiesta che si basa “su evidenze scientifiche ed esperienze di altri Paesi” ha aggiunto la ex sindaco di Milano, in riferimento al modello di Israele e del Regno Unito, dove la somministrazione di singola dose ha consentito di aumentare il numero di persone che hanno ricevuto una prima protezione anche se con efficacia inferiore.

Il rischio della priorità di una singola dose

A fare discutere è soprattutto il diverso programma di dosaggio per i vaccini a mRna di Pfizer-BioNTech e Moderna che prevedono un richiamo a 3 e 4 settimane rispettivamente, mentre per il vaccino di Oxford-Astrazeneca, basato su adenovirus, l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha recentemente raccomandato la seconda dose dopo 12 settimane, sulla base dei risultati di un nuovo studio pubblicato su The Lancet. Per gli altri due vaccini, e in particolare con quello di Pfizer, l’immunità conferita da una singola iniezione “potrebbe diminuire se la seconda dose non arriva dopo tre-quattro settimane” hanno chiarito gli sviluppatori del siero.

Oltre al rischio che la protezione conferita da una singola dose possa calare nel tempo, il problema di una strategia di vaccinazione alternativa, magari con un vaccino poco efficace e con due dosi molto distanziate, è “che un’immunità parziale (con basso titolo di anticorpi neutralizzanti) generata in una larga parte della popolazione possa favorire lo sviluppo e la selezione di varianti che rendono meno efficaci tutti i nostri vaccini – ha sottolineato la professoressa Antonella Viola, immunologa dell’Università di Padova, in un editoriale pubblicato su La Stampa  – . Questo perché, a differenza dei vaccini basati su mRNA, il vaccino di Oxford non sembra bloccare l’infezione: la protezione che si è osservata finora è irrilevante, anche se nuovi dati sono in elaborazione e si spera che siano migliori. Inoltre, i soggetti vaccinati e infettati potrebbero non sviluppare sintomi e quindi favorire la diffusione del virus.

È importante poi sottolineare che, se anche nel tempo dovessero emergere dati più solidi a sostegno della validità dell’intervallo di 12 settimane per AstraZeneca, questi dati non si potrebbero trasferire ad altri vaccini – ha aggiunto Viola – : i vaccini a mRNA agiscono in modo molto diverso sul sistema immunitario e gli studi clinici hanno evidenziato importanti differenze nella risposta indotta dai vaccini con adenovirus e quelli basati su mRNA”.

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