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Covid 19

Non tutti i guariti dalla Covid sviluppano anticorpi contro il coronavirus

Analizzando i campioni di plasma di 72 pazienti contagiati dal coronavirus SARS-CoV-2, un team di ricerca dei CDC statunitensi ha rilevato anticorpi neutralizzanti (IgG) e/o IgA soltanto in 46 di essi. Ciò significa che il 36 percento è risultato essere sieronegativo. Si ritiene che questi pazienti siano esposti al rischio di infezioni rivoluzionarie, dato che ai guariti, di norma, si somministra una singola dose di vaccino anti Covid, non sufficiente contro la variante Delta ora dominante.
A cura di Andrea Centini
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Dopo aver contratto una malattia infettiva è naturale sviluppare anticorpi contro il patogeno che l'ha innescata, ciò nonostante questo fondamentale processo biologico – alla base dello "scudo immunitario" che protegge da successive reinfezioni – in talune circostanze non si sviluppa. La cosiddetta “non sieroconversione” è stata osservata anche in una percentuale significativa di pazienti con COVID-19, la malattia provocata dal coronavirus SARS-CoV-2. Ciò può rappresentare un problema nell'ottica delle cosiddette infezioni rivoluzionarie nei vaccinati. Per chi è guarito dalla COVID-19, infatti, è normalmente prevista una sola dose di vaccino, ma per chi non ha sviluppato anticorpi dopo la malattia, la singola dose potrebbe non bastare nella situazione epidemiologica attuale, dominata dalla variante Delta. Come dimostrato da diversi studi, a causa delle mutazioni di fuga immunitaria sulla proteina S o Spike, la variante Delta è infatti più “brava” a eludere gli anticorpi neutralizzanti, pertanto è fondamentale completare il ciclo vaccinale con le due dosi (con la terza all'orizzonte) per proteggersi.

A dimostrare che non tutti i pazienti contagiati dal coronavirus SARS-CoV-2 e guariti sviluppano anticorpi rilevabili dai test è stato un team di ricerca americano guidato da scienziati dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) statunitensi, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi dell'Università della Pennsylvania, dell'Università dell'Alabama di Birmingham, del Weill Cornell Medicine di New York, dell'Howard Hughes Medical Institute, dell'Università Rockefeller e di Assurance Scientific. Gli scienziati, coordinati dai dottori Beatrice H. Hahn e Weimin Liu, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato i campioni di plasma di 72 pazienti risultati positivi all'esame del tampone oro-rinofaringeo (RT-PCR). Fra essi in 2 (3 percento) non hanno sperimentato sintomi; in 13 (18 percento) hanno sviluppato una malattia lieve; in 48 (67 percento) hanno avuto una COVID-19 moderata; e in 9 (12 percento) hanno avuto la forma grave dell'infezione.

Dopo aver analizzato il plasma attraverso un test di laboratorio convalidato chiamato ELISA, i ricercatori hanno rilevato anticorpi neutralizzanti (immunoglobuline IgG), IgA o entrambi soltanto in 46 pazienti positivi su 72. Dunque c'era una percentuale significativa (pari al 36 percento) di persone che nonostante l'infezione – di varia gravità – non avevano sviluppato anticorpi rilevabili. Incrociando i dati clinici e demografici, la professoressa Hahn e i colleghi hanno determinato che la sieronegatività era più probabile tra i pazienti più giovani e tra coloro che avevano una bassa carica virale rilevata dal tampone oro-rinofaringeo. Confrontando gravità dei sintomi, etnia e sesso, i ricercatori non sono riusciti a trovare un'associazione significativa con lo stato sierologico, pur essendo stata osservata una certa tendenza all'aumento della positività anticorpale all'aumentare della gravità dei sintomi. Inoltre non sono state osservate differenze significative nella sieroconversione tra i pazienti che presentavano i sintomi e gli asintomatici. I soggetti che avevano meno probabilità di sviluppare una risposta anticorpale sistemica, spiegano i ricercatori dei CDC, erano in media di 10 anni più giovani e avevano una carica virale del SARS-CoV-2 più bassa nel tratto respiratorio. Non si esclude che nello studio possa essere stato incluso qualche falso positivo.

Una certa percentuale di pazienti infettati dal patogeno pandemico ma risultati negativi alla sieroconversione è stata rilevata anche in Israele, Germania e altre indagini di sieroprevalenza condotte negli Stati Uniti, pertanto sarà fondamentale valutare l'effettiva diffusione della sieronegatività nell'ottica di una migliore gestione delle vaccinazioni nei soggetti guariti. I dettagli della ricerca “Predictors of Nonseroconversion after SARS-CoV-2 Infection” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Emerging Infectious Diseases.

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