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Covid 19

Nei luoghi soleggiati la mortalità per Covid è abbattuta del 30%

Mettendo a confronto i tassi di mortalità per COVID-19 nelle aree più o meno soleggiate di Stati Uniti, Italia e Inghilterra, un team di ricerca dell’Università di Edimburgo ha determinato che nei luoghi maggiormente esposti ai raggi UVA si registra una riduzione dei decessi del 30 percento. Gli scienziati hanno tenuto conto di fattori ambientali e sociodemografici come densità della popolazione, età, reddito, temperature, inquinamento atmosferico e altro.
A cura di Andrea Centini
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Alla data odierna, venerdì 9 aprile 2021, in base alla mappa interattiva messa a punto dall'Università Johns Hopkins dall'inizio della pandemia il coronavirus SARS-CoV-2 ha contagiato circa 134 milioni di persone e ne ha uccise 2,9 milioni in tutto il mondo (in Italia le infezioni complessive risultano essere 3,7 milioni e i decessi poco meno di 113mila). I Paesi più colpiti sono al momento gli Stati Uniti (560mila morti), il Brasile (345mila morti), il Messico (206mila morti), l'India (167mila morti), il Regno Unito (127mila morti) e il nostro; una vera e propria strage che ci si augura possa essere arrestata al più presto col prosieguo della campagna vaccinale. Secondo un nuovo studio la distribuzione di questi decessi non è stata uniforme nei vari territori nazionali; tenendo in considerazione fattori sociodemografici (densità della popolazione, età, razza, reddito etc etc), ambientali (inquinamento atmosferico, temperature) e tassi di infezione, è stato infatti rilevato che le aree più soleggiate fanno registrare una mortalità per COVID-19 sensibilmente inferiore (del 30 percento) rispetto alle altre.

A determinare questa correlazione tra aree soleggiate e mortalità per infezione da coronavirus SARS-CoV-2 è stato un team di ricerca scozzese guidato da scienziati del Centro per la ricerca sull'infiammazione dell'Università di Edimburgo, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi della Scuola di Scienze Geologiche e del Centro per le Scienze Cardiovascolari. I ricercatori, coordinati dallo specialista di Dermatologia Richard Weller, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver messo i relazione i tassi di mortalità per COVID con le concentrazioni di raggi ultravioletti rilevati in tre Paesi: Stati Uniti, in Italia e in Inghilterra. Per quanto concerne gli Stati Uniti, sono stati analizzati i dati di circa 2.500 contee tra gennaio e aprile 2020, durante la prima, catastrofica ondata di contagi. I ricercatori hanno escluso dallo studio tutte le aree con raggi UVB (ultravioletti con una lunghezza d'onda media, tra i 315 e 280 nanometri) considerati “insufficienti per produrre una significativa quantità di vitamina D nell'organismo”, si legge in un comunicato stampa dell'ateneo britannico. L'obiettivo era infatti verificare l'impatto dei raggi solari escludendo dall'equazione il contributo dei raggi UVB e della produzione di vitamina D ad essi associata , dunque prendendo in considerazione i soli raggi UVA (ultravioletti con una lunghezza d'onda compresa tra i 400 e i 315 nanometri), che rappresentano il 95 percento della radiazione solare.

Incrociando tutti i dati e tenendo in considerazione i fattori sociodemografici e ambientali di cui sopra, è emerso che nelle aree più soleggiate degli Stati Uniti il rischio di mortalità era inferiore del 29 percento (40 percento – 15 percento, con un intervallo di confidenza del 95 percento). Dopo aver replicato la stessa analisi per i territori dell'Italia e dell'Inghilterra, i ricercatori dell'Università di Edimburgo hanno osservato anche qui un Mortality Risk Ratio (MRR) ridotto in modo significativo, del 32 percento per entrambi (48 percento – 15 percento, IC 95 percento). In altri termini, in questi Paesi le aree più soleggiate ed esposte a maggiori concentrazioni di raggi UVA hanno fatto registrare una mortalità ridotta di un terzo rispetto alle altre. Secondo il professor Weller e colleghi, la riduzione della mortalità osservata non può essere spiegata né dai raggi UVB né dalle concentrazioni di vitamina D, ma dagli effetti dei raggi UVA; questi raggi ultravioletti, infatti, spingono la pelle a produrre ossido nitrico, un composto chimico che potrebbe ridurre la capacità di replicazione del SARS-CoV-2, come evidenziato da altri studi di laboratorio.

Il recente studio “UVB Radiation Alone May Not Explain Sunlight Inactivation of SARS-CoV-2” pubblicato sulla rivista scientifica The Journal of Infectious Diseases  ha dimostrato che la luce solare è in grado di inattivare molto rapidamente il patogeno pandemico, molto più di quanto ci si aspetterebbe dai modelli teorici. Secondo gli scienziati dell'Università della California potrebbe entrare in gioco la reazione tra i raggi UVA e le goccioline di saliva in cui “viaggiano” le particelle virali del SARS-CoV-2. Precedenti studi avevano dimostrato le proprietà antivirali dei raggi UVA, che risultano efficaci nel trattamento delle acque reflue.

Secondo gli autori del nuovo studio potrebbe entrare in gioco anche la protezione cardiovascolare offerta dall'esposizione (sicura) alla luce solare. Nelle aree soleggiate, infatti, si registrano tassi di pressione alta più bassi e un'incidenza minore di attacchi di cuore. Poiché le malattie cardiovascolari sono tra i principali fattori di rischio di complicazioni per COVID-19, anche questo dettaglio potrebbe spiegare la ridotta mortalità osservata nei luoghi “baciati dal sole”. I dettagli della ricerca “Ultraviolet A Radiation and COVID‐19 Deaths in the USA with replication studies in England and Italy” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica British Journal of Dermatology.

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