Nascosto nel DNA il segreto che protegge dall’Alzheimer?
Entro il 2050, a condizione che non vengano individuate soluzioni terapeutiche per debellare completamente il morbo, l'impressionante cifra di trenta milioni di persone che attualmente convivono con l'Alzheimer sarà quadruplicata: tra le diverse forme di demenza degenerativa, infatti, il morbo di Alzheimer risulta essere la più diffusa nella popolazione mondiale, lasciando prevedere scenari ancora più preoccupanti per i prossimi decenni, qualora i ritmi degli attuali trend di crescita proseguano invariati e qualora fattori di altro tipo non intervengano per modificare la struttura stessa della società. La scienza è a tutt'oggi "a caccia" di risposte in merito ai meccanismi che portano allo scatenarsi della malattia capaci di costituire anche la base su cui costruire un nuovo approccio terapeutico: per questa ragione numerose ricerche stanno seguendo diverse strade, nella speranza di porre la parola fine su una patologia che sembra assumere sempre più le caratteristiche dell'«epidemia del terzo millennio».
Una ricerca pubblicata dalla rivista scientifica Nature potrebbe però aprire ad una speranza mostrando come una piccolissima percentuale di individui porti nel proprio patrimonio genetico una mutazione in grado di prevenire l'insorgere della malattia: nel gene APP (Amyloid precursor protein) potrebbe celarsi una chiave per comprendere come aggirare il fenomeno Alzheimer e contrastare il declino cognitivo a questo associato? Il ruolo dell'APP venne individuato già venticinque anni fa nei cervelli di pazienti affetti dalla forma più rara di Alzheimer, quello di natura ereditaria che colpisce soggetti di mezza età: il malfunzionamento di tale gene, che a causa di un enzima inizia a secernere la beta-amiloide che si accumula nelle placche neuronali infiammabili caratteristiche della patologia, è, dunque, da sempre ritenuto il principale responsabile dell'insorgere del morbo, sebbene i dettagli e le ragioni di tale anomalia continuino a risultare poco chiare.
La prevalenza delle demenze in tutta la popolazione mondiale di età superiore ai 60 anni è più accentuata di un 5% nei Paesi occidentali, con circa due terzi delle persone affette colpite proprio da Alzheimer: partendo da questo dato, un gruppo di ricercatori internazionale guidato da Kari Stefansson della deCODE genetics e della University of Iceland di Reykjavik ha individuato una trentina di mutazioni nella APP, alcune delle quali sembrerebbero favorire la trasformazione e quindi l'accumulo di beta-amiloide, le medesime riscontrate nei soggetti con Alzheimer precoce, a fronte di un'altra capace di ostacolare ed inibire proprio l'enzima coinvolto nella formazione del beta-amiloide. Una sorta di scudo, o protezione naturale, contro il declino cognitivo che, tuttavia, è determinato da una mutazione rara: a dispetto della sua scarsa frequenza, però, la scoperta di questa variante, e l'osservazione del suo funzionamento in vitro, evidenzierebbe come la possibilità di intervenire proprio sul meccanismo alla base della produzione del peptide "tossico" potrebbe essere la prospettiva migliore dalla quale agire per contrastare la malattia, fonte di dolore non soltanto per il paziente ma anche per i suoi familiari, e per la quale la medicina non è ancora in grado di offrire una vera cura, ma soltanto rimedi capaci di lenire la sofferenza.
Le varianti del gene APP sono state esaminate attraverso un ampio studio che ha coinvolto 1 795 cittadini islandesi, ciascuno con la propria personale storia clinica: al fine di individuare in che modo queste potessero essere messe in relazione con la demenza degenerativa, successivamente le analisi ottenute sono state confrontate con due gruppi, l'uno composto da persone affette da Alzheimer, l'altro, di controllo, con individui di età uguale o superiore agli 85 anni che non avevano sviluppato il morbo. Ne è emerso che i portatori della mutazione A673T sarebbero protetti ereditariamente dalla patologia: purtroppo tale variante non è particolarmente frequente, essendo stata riscontrata nel patrimonio genetico dello 0.5% degli islandesi (mentre, per le restanti popolazioni scandinave successivamente studiate, la mutazione è stata rilevata in una percentuale compresa tra lo 0.2 e lo 0.5).
Sarà questo lo studio che aiuterà a trovare la soluzione definitiva per sconfiggere il "male del secolo"? Certamente i progressi in questa direzione negli ultimi anni sono stati notevoli: l'ultimo, è stato il successo della prima fase di sperimentazione sugli uomini di un vaccino, CAD 106, che sembra promettere prospettive ottimistiche. Ma la strada è ancora lunga.