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Le prove del cannibalismo tra i primi coloni americani

Resti umani rinvenuti di recente testimonierebbero del “fiero pasto” consumato nella prima comunità insediatasi a Fort James, in Virginia, confermando alcuni resoconti storici dell’epoca.
A cura di Nadia Vitali
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Nulla a che vedere con misteriosi ed improbabili riti di fondazione che prevedevano cruenti spargimenti di sangue, animale o umano: i primi coloni americani (poche centinaia di individui giunti a partire dal 1607) che posero le proprie dimore in quel villaggio della Virginia che venne battezzato Jamestown, assai probabilmente ricorsero al cannibalismo come ultimo, disperato tentativo di sopravvivenza, stretti tra un ostile inverno e il terrore delle vicine popolazioni native. La carestia che si era abbattuta sui territori tra il 1609 e il 1610 mise a dura prova il corpo e lo spirito dei padri fondatori di quello che sarebbe diventato il primo insediamento stabile del continente americano: oggi a raccontarcelo intervengono alcune prove archeologiche che testimonierebbero quanto già narrato dalle fonti scritte dell'epoca o di poco successive.

Gli antropologi e gli archeologi dello Smithsonian Museum of Natural History di Washington hanno infatti presentato i risultati del lavoro di analisi forense condotto su resti umani risalenti al XVII secolo e ritrovati nel 2012 nel corso degli scavi che da diversi anni interessano il nucleo più antico dell'insediamento coloniale, chiamato James Fort. Frammenti ossei venuti alla luce da un deposito di rifiuti nel sottosuolo di un edificio risalente al 1608 e consistenti in una tibia ed un cranio che mostrerebbe gli evidenti segni di un aggressione: compito dei ricercatori è stato stabilire a chi appartenessero i resti e se eventualmente recassero i segni di un'uccisione o, addirittura, del cannibalismo. I resoconti storici, in effetti, tornano più di una volta su episodi legati allo stato di estrema povertà e assenza di risorse che avrebbe spinto i primi abitanti di James Fort a ricorrere alla carne umana come “fiero pasto”: nel tentativo di ottenere una concreta prova di tali episodi, William Kelso, direttore archeologico del Jamestown Rediscovery Project ha richiesto la consulenza scientifica di Doug Owsley, a capo della sezione di antropologia del museo di storia naturale di Washington.

È stato così possibile ricostruire non solo l'identità dell'individuo ma anche il suo possibile aspetto constatando, soprattutto, come effettivamente il corpo venne sottoposto ad un vero e proprio “scannamento”: in particolare, i segni di quattro fendenti inferti con mano piuttosto debole all'altezza della fronte starebbero ad indicare un primo tentativo fallito di aprirne il cranio; probabilmente in un momento successivo, la parte posteriore risulta essere stata spaccata con i colpi più fermi e forti provenienti da una mannaia o da una piccola accetta. Evidentemente, coloro i quali infierirono sul cadavere erano interessati a mangiarne il cervello, ma anche parti più in vista del volto, come le guance; tagli ottenuti grazie ad uno strumento affilato, visibili sui lati e sotto la mandibola, sarebbero da attribuirsi ad un tentativo di eliminare i tessuti dalla faccia e dalla gola per ricavarne altra carne per nutrirsi e placare una fame diventata probabilmente “ferina”.

Lo scheletro, del quale si possiede in effetti appena il 10%, era di una fanciulla alla quale i ricercatori hanno attribuito il nome di Jane: grazie alle analisi condotte sui suoi poveri e scarsi resti, gli studiosi sono stati in grado di ricostruire diversi aspetti della sua breve vita che vide i propri esordi nell'Inghilterra e finì all'incirca 14 anni dopo per cause che è stato impossibile stabilire. È verosimile ipotizzare, tuttavia, che l'assalto al cadavere avvenne quasi immediatamente dopo la morte, secondo il Professor Owsley: «Il tentativo di rimuovere il cervello è qualcosa che va fatto molto rapidamente poiché il materiale cerebrale non si preserva bene e a lungo», ha spiegato. Gli esami isotopici condotti sui denti e sulle ossa hanno consentito di ricostruire una possibile dieta della ragazza che fu ricca di proteine, denunciando un'estrazione sociale elevata, in accordo con i tempi in cui l'accesso alla carne era un privilegio riservato a pochissimi individui (o, in alternativa, è probabile che fosse stata domestica a servizio di qualche personaggio benestante). La ragazza, inoltre, avrebbe vissuto molto poco tempo a Fort James, prima di morire per cause naturali o per mano di ignoti.

Difficilmente sapremo altro di Jane, della sua breve esistenza e delle cause che la portarono a divenire cibo per coloni disperati; tuttavia ci è possibile conoscere molto di quel contesto di cupa miseria che spinse, forse i suoi stessi compagni di viaggio verso le speranze del mondo nuovo, a compiere quel folle gesto. Grazie alle cronache dell'epoca, infatti, è noto da tempo come il cannibalismo abbia costituito la risorsa estrema dei primi abitanti delle coste della Virginia, in particolare durante il periodo chiamato starving time, quando una violenta carestia si abbatté sulla colonia di Jamestown nell'inverno a cavallo tra il 1609 e il 1610. Dei 500 abitanti che formavano la piccola e giovane comunità ne sopravvissero appena una sessantina, al costo altissimo di doversi nutrire prima dei propri cavalli, dei propri cani e dei propri gatti; poi vennero mangiati i topi, i serpenti e il cuoio delle scarpe.

Nel corso dell'inverno, James Fort rimase assediato dai nativi Powhatan (la grande e potente tribù celebre soprattutto grazie al personaggio di Pocahontas): le riserve di cibo che erano giunte con una flotta nell'agosto del 1609 (forse su una nave dove la stessa Jane viaggiava) si erano rivelate in buona parte deteriorate e non consentirono ai coloni di affrontare i mesi successivi; la precedente siccità aveva reso la terra profondamente arida. Alla fine, si arrivò a mangiare gli stessi esseri umani: il caso di Jane non fu probabilmente un episodio del tutto straordinario, in quel momento. Il presidente della colonia, John Smith, era partito nel settembre del 1609: il resoconto di quanto accadde a Jamestown fu dunque opera del reggente George Percy che registrò atti e stati d'animo della indicibile disperazione dell'epoca, durante quel rigido inverno che decimò la popolazione del piccolo villaggio: suo è l'accenno alle pratiche di cannibalismo, extrema ratio di un manipolo di miserabili perduti al di là dell'Oceano, fuggiti al vecchio mondo ed approdati in una realtà ostile e terribile, dalla quale solo in pochissimi uscirono vivi e, alcuni di essi, con il ricordo dell'orrore consumato durante i mesi più oscuri.

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