Le origini genetiche dei nativi americani raccontate da uno scheletro
Sono stati i primi abitanti di quel vasto Continente posto al di là dell'Oceano che, una volta finito sulle carte degli Europei a partire dal XVI secolo, sarebbe divenuto terra di colonizzazione con le drammatiche conseguenze sulle popolazioni preesistenti che, pur essendo a tutti note, costituiscono sempre una parte solo secondaria della storia. Eppure il lungo viaggio che portò gruppi umani ad attraversare lo stretto di Bering, quando una striscia di terre emerse lo consentiva almeno 12.000 anni fa, è da sempre oggetto di ricerche scientifiche: un po' perché il fascino dei nativi americani resta una costante nella storia degli studi, un po' perché può capitare occasionalmente di incappare in qualche dato che conferma come siamo parte di un grande puzzle genetico attraverso il quale è possibile tracciare le stesse linee della storia dell'umanità.
Esattamente come è accaduto agli scienziati della University of Copenaghen che, nel sequenziare il genoma di un giovane individuo di sesso maschile vissuto in Siberia circa 24.000 anni fa, hanno individuato un nuovo fondamentale tassello in quel mosaico che da anni cerca di dare una risposta ai grandi quesiti sugli indiani d'America: i risultati del lavoro, che ha coinvolto numerosi ricercatori internazionali, sono stati resi noti in un articolo pubblicato da Nature. Il dato più significativo emerso dagli esami effettuati sul DNA del reperto riguarda, infatti, la vicinanza genetica del giovane a cui appartennero le ossa con i moderni nativi americani: questo ha stupito i ricercatori perché l'uomo risulterebbe essere imparentato con gli euro-asiatici occidentali ma non con gli asiatici orientali, da sempre indicati come gli individui geneticamente più prossimi ai nativi.
La ricostruzione filogenetica attraverso il genoma del giovane siberiano, effettuata grazie al cromosoma Y e al DNA mitocondriale, ha rilevato affinità con una vasta area che comprende Europa occidentale, Asia meridionale e Nord-Africa ma che esclude l'Asia centrale ed orientale e le Americhe; quindi, se l'individuo è un antenato dei nativi americani, questi ultimi serberebbero nel proprio DNA circa un 14-38% riconducibile ad una popolazione non asiatico-orientale ma che visse presso il sito di Mal'ta durante il paleolitico. L'ipotesi che tale "intrusione" di patrimonio genetico europeo derivasse dagli scambi avvenuti dopo il 1492 è stata scartata in seguito ad accurati esami mirati proprio a verificare la possibilità di una "contaminazione" successiva.
Proprio dall'insediamento preistorico di Mal'ta nei pressi del lago Baikal, infatti, provengono i resti del fanciullo che hanno consentito agli scienziati di riscoprire la doppia origine degli americani: venuti alla luce negli anni '20 del XX secolo, erano custoditi presso il Museo dell'Hermitage di San Pietroburgo assieme agli altri reperti rinvenuti nel corso delle campagne di scavo e che costituivano il corredo del piccolo che, al momento della morte, doveva avere all'incirca 3 o 4 anni. Vissuto approssimativamente 24.000 anni fa in Siberia, MA – 1 – questo il nome con cui era stato catalogato e conservato – riposava assieme a diversi oggetti tra cui certamente il più degno di interesse era una statuina in avorio di mammut, tipica venere paleolitica, testimonianza della cultura stanziata in questo remoto angolo di Russia. L'aspetto interessante deducibile dallo studio dei ricercatori riguarda anche i fenomeni migratori dei più antichi antenati degli europei: la scoperta, infatti, sarebbe la conferma di un flusso migratorio che spinse gli abitanti dell'Europa occidentale fino ad un oriente molto più ad est di quanto creduto fino ad ora.
Ad ogni modo i nativi americani di oggi sono molto più vicini agli est-asiatici: come spiegare, dunque, la connessione con il bambino di Mal'ta? Lo scenario più probabile, secondo i ricercatori, vede una popolazione come quella vissuta in Siberia 24.0000 anni fa mescolarsi con gli antenati degli asiatici orientali in un certo momento storico posteriore alla morte del fanciullo. Gli indiani d'America recherebbero nel proprio patrimonio genetico i segnali di questo incontro tra le due popolazioni; purtroppo, però, è poco chiaro dove potrebbe essere avvenuto tale "scambio di DNA". Chissà che qualche ritrovamento fortuito, in futuro, non aiuti a comprendere ancora meglio questo frammento di storia delle migrazioni umane: potrebbe essere accaduto, infatti, in Siberia ma anche nel Nuovo Mondo, magari durante la prima fase di stanziamento delle nuove genti. Probabilmente, analisi sui più antichi resti provenienti proprio dalle Americhe potrebbero aiutare a comprendere ancor meglio in che modo Europei ed Asiatici si unirono per dar vita a tutti quei popoli che avrebbero dominato il continente americano da nord a sud, prima di venir spazzati via dal vento della modernità o relegati in piccoli angoli marginali per far posto ai colonizzatori.