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Le memorie perdute possono essere ritrovate

I neuroscienziati del MIT hanno recuperato i ricordi in alcuni topolini con i primi sintomi dell’Alzheimer.
A cura di Nadia Vitali
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Illustrazione di una cellula nervosa normale a confronto con quella di un paziente affetto da Alzheimer
Illustrazione di una cellula nervosa normale a confronto con quella di un paziente affetto da Alzheimer

Durante le prime fasi in cui si manifesta la malattia di Alzheimer, i pazienti diventano spesso incapaci di ricordare le esperienze recenti: un nuovo studio, però, ha evidenziato che questi ricordi non vanno del tutti perduti, bensì conservati in una precisa area del cervello dove non è poi così difficile accedere.

Uno studio del MIT

La scoperta è opera dei neuroscienziati del MIT ed ha dimostrato che nuove memorie si formano nel cervello dei topolini normali esattamente come in quelli affetti da Alzheimer, con la differenza che questi ultimi hanno più difficoltà a richiamarle alla mente già dopo pochi giorni.

Susumu Tonegawa, direttore del RIKEN-MIT Center for Neural Circuit Genetics e principale autore del lavoro pubblicato da Nature, ha concentrato gli studi dei suoi ultimi anni sulle cellule della regione cerebrale dell'ippocampo, identificando l'area precisamente adibita alla conservazione dei ricordi. Con il suo gruppo di ricerca ha anche dimostrato che, manipolando le unità minime di queste memorie, è possibile impiantare falsi ricordi nel cervello dei topi, attivandone di nuove o alterando le associazioni emotive ad un ricordo.

Ricordi cancellati?

Studiando topolini affetti da amnesia in seguito a stress o traumi, gli scienziati hanno notato che il meccanismo di formazione dei ricordi restava intatto mentre veniva danneggiato il sistema per richiamare questi alla mente: ciò ha portato ad interrogarsi sulla possibilità che qualcosa di analogo potesse accadere per i pazienti ai primi stadi dell'Alzheimer, quando le placche di beta-amiloide, caratteristiche della malattia, non si sono ancora formate nel cervello dei pazienti.

Da qui l'idea dell'esperimento: due gruppi di topolini, uno in salute l'altro geneticamente ingegnerizzato per sviluppare la malattia di Alzheimer, esposti ad uno shock alla zampa. Tutti i topolini hanno mostrato di aver paura, quando sono stati posizionati, poche ore dopo, nella stessa stanza dove avevano ricevuto il trauma. Lo stesso non è accaduto quando sono trascorsi diversi giorni: in questo caso, le cavie con la malattia sembravano aver smarrito il ricordo.

No, problemi di accesso all'archivio mnemonico

Eppure l'informazione era sempre lì, si trattava soltanto di andarla a recuperare. Per dimostrare questo, i ricercatori hanno contrassegnato le cellule che serbavano la traccia mnemonica associata all'esperienza spaventosa con una proteina sensibile alla luce, utilizzando una tecnica già sviluppata nel 2012. Sono così riusciti a riattivare il ricordo anche nei topolini con l'Alzheimer che, quindi, hanno ricominciato a mostrare di aver paura una volta inseriti in un ambiente nuovo. Sostanzialmente, quindi, uno stimolo diretto è stato d'aiuto per recuperare l'informazione, suggerendo quindi che il problema sta tutto nell'accesso alla memoria e non nella sua formazione. Ma come mai?

Neuroni diversi

I ricercatori hanno osservato che le cellule con la traccia mnemonica nel cervello dei topolini affetti da Alzheimer avevano un minore numero di spine dendritiche, piccolissimi elementi che servono a ricevere i segnali provenienti dagli altri neuroni: in condizioni di normalità, quando si genera un nuovo ricordo, nuove spine dendritiche nascono nelle cellule ma questo non sembra accadere nei cervelli delle cavie malate. Ecco perché il naturale processo di riattivazione dell'informazione risulta danneggiato.

Recuperare i ricordi degli uomini?

La tecnica di utilizzare la luce per stimolare opto-geneticamente le cellule cerebrali costituisce uno degli approcci più moderni ed interessanti nell'ambito delle neuroscienze: purtroppo, nonostante si tratti di un metodo estremamente preciso per intervenire sul cervello, l'uso sugli esseri umani non è ancora possibile a causa della sua decisa invasività. Ma magari, questo potrebbe essere il primo passo verso un futuro in cui anche per gli uomini sarà possibile ritrovare quei ricordi apparentemente perduti ma sempre ben custoditi dal cervello.

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