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L’astronauta Maurizio Cheli: “Quel mezzo millimetro che fa di te un ‘alieno’ per qualche giorno”

Astronauta, aviatore, avventuriero e imprenditore, Maurizio Cheli è uno degli unici due uomini al mondo ad aver volato nello spazio – a bordo dello Space Shuttle Columbia, nel 1996 – ed essere salito in cima alla montagna più alta della Terra, l’Everest. Il racconto delle sue incredibili esperienze a fanpage.
A cura di Andrea Centini
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Ci sono soltanto due uomini al mondo che hanno volato nello spazio e scalato l'Everest, uno è lo statunitense Scott Edward Parazynski, medico ed ex astronauta della NASA, l'altro è l'italianissimo Maurizio Cheli. Nato nel 1959 a Zocca, in provincia di Modena, Cheli non solo è stato il secondo astronauta del Bel Paese – dopo Franco Malerba -, ma è anche stato il primo “Mission Specialist” italiano a bordo dello Space Shuttle, in seno alla missione STS-75 lanciata il 22 febbraio 1996 dal John F. Kennedy Space Center di Cape Canaveral, in Florida. Nell'equipaggio dello Shuttle Columbia, composto da sette astronauti, era presente anche Umberto Guidoni in qualità di Payload Specialist (responsabile del carico scientifico). La missione, che durò quasi 16 giorni, proiettò l'astronauta, pilota di caccia, avventuriero e oggi imprenditore di successo nella storia dell'astronautica italiana e non solo.

Cheli è intervenuto allo Sport Tech District nell'ambito del Festival dello Sport, che si è tenuto dal 10 al 13 ottobre a Trento. Si è discusso dell'innovazione applicata allo sport, volano dello sviluppo territoriale della regione del Nord Italia, come affermato dall'agenzia Trentino Sviluppo. “Il 6% del PIL provinciale è generato dallo sport tech. Per contribuire alla crescita di questo segmento, l’hub green di Trentino Sviluppo a Rovereto, Progetto Manifattura, già punto di riferimento europeo per le tecnologie verdi, l’edilizia sostenibile e le energie rinnovabili, è oggi un magnete anche per lo sport tech”, ha dichiarato Paolo Pretti, Direttore Operativo di Trentino Sviluppo. Abbiamo avuto l'onore e il piacere di intervistare Maurizio Cheli sulla sua esperienza da astronauta e uomo di sport, con uno sguardo al futuro dell'esplorazione spaziale. Ecco cosa ci ha raccontato.

Lei è stato il primo Mission Specialist non americano a bordo dello Space Shuttle, il secondo astronauta italiano in assoluto ed è stato impegnato in una missione molto lunga per gli standard della navicella americana, di quasi 16 giorni. Qual è il suo ricordo più emozionante di quella esperienza eccezionale nello spazio? C'è stato un momento che ha “terrorizzato” lei e i suoi colleghi?

Di momenti ce ne sono stati più di uno per motivi diversi. Ovviamente il momento in cui ci si solleva di quel mezzo millimetro che fa di te un “extraterrestre” per qualche giorno. Un po' per le sensazioni, come il countdown molto emozionante, un qualcosa che avevo sempre visto in televisione. Un conto è vederlo da spettatore e un conto viverlo. Anche perché rappresenta quell'istante in cui realizzi che tutto quello che hai sognato negli anni passati, quello per cui hai studiato, ti sei impegnato, hai combattuto, ti sei disperato – perché ovviamente non tutto fila sempre liscio – trova il suo compimento. E quindi puoi finalmente dire “oh”, sono qui, sto partendo. Un altro momento molto emozionante è stato circa 20 minuti dopo il lancio, quando uno dei miei primi compiti era mettermi nella parte posteriore della cabina dello shuttle, da dove si attivano i comandi per aprire le porte della stiva di carico. Normalmente le finestre dietro guardano dentro la stiva. Quando hanno iniziato ad aprirsi e ho visto la Terra – non che non si vedesse anche dai finestrini anteriori – sembrava proprio essere lì. Mi hanno colpito moltissimo i colori, il blu molto intenso della Terra, e il nero intenso dell'Universo, il tutto condito dal bianco delle nubi dell'alta atmosfera. Questo è stato molto impressionante, soprattutto quando hai modo di vederlo così bene per la prima volta.

Dal punto di vista dei sensi, perché non ci si può addestrare per quello che poi uno vedrà, il momento più impressionante è il rientro. Perché le missioni dello Space Shuttle rientravano solitamente a Cape Canaveral all'alba, dunque si fa una gran parte del rientro nella parte notturna della Terra. Quindi scura la Terra, scuro il cielo, e tu per dieci minuti sei in una palla di fuoco. E questo è veramente impressionante. Hai la cabina completamente avvolta dalle fiamme, è qualcosa che ti lascia a bocca aperta. Anche perché mentre per il lancio non hai le accelerazioni nel simulatore, quest'ultimo ha le procedure e vibra, è comunque realistico, mentre il rientro non è simulato. Ed è davvero impressionante ed emozionante viverlo la prima volta.

Una volta disse che qualunque astronauta andato nello spazio vorrebbe tornarci, ma che tuttavia “c'è un'età per tutto”. Ha un rimpianto, una missione che le sarebbe piaciuto affrontare, o che magari la spingerebbe a tornare di nuovo lassù?

Io interpreto il mal di spazio non come il mal di mare ma come il mal d'Africa, diciamola così, che rende abbastanza l'idea. È vero, è un'esperienza dal punto di vista individuale incredibile, ma se oggi mi dicessero “sei pronto a partire domani” io partirei. Non ho dubbi su questo. Però poi nella vita bisogna fare delle scelte. E io quando sono tornato dal volo mi hanno offerto di diventare pilota collaudatore degli Eurofighter (lo ero già militare), e quello che mi ha spinto è il fatto che fosse un progetto completamente nuovo, dall'inizio. Normalmente al giorno d'oggi i progetti aeronautici durano 30/35 anni, e quindi trovarsi nella piena maturità professionale con l'inizio di un progetto entusiasmante e così complesso come l'Eurofighter è un caso della vita. Quando mi sono trovato lì, mi sono domandato “cosa faccio?”, perché avrei potuto benissimo volare di nuovo, come hanno fatto altri colleghi che erano con me, ma per me la novità ha sempre avuto un'attrazione di gran lunga superiore a quella di ripetere qualcosa anche di esaltante ma che avevo già visto. Per cui non potendo fare tutte e due le cose ho scelto la novità. Per me che ho sempre basato la mia vita sul volo in generale, e avendo avuto la fortuna di volare nello spazio, dal punto di vista professionale di un pilota collaudatore che ha avuto la possibilità di gestire un progetto nuovo e così grosso come quello dell'Eurofighter è stato sicuramente qualcosa di molto importante. L'ho sempre considerata la mia seconda missione spaziale. Il che non toglie, mi ripeto, che se domani mi chiedessero “sei pronto a partire”, partirei subito.

Cos'ha provato quando il “suo” shuttle – il Columbia – fu protagonista del drammatico incidente del 1° febbraio 2003, che costò la vita a tutti e sette gli astronauti a bordo?

Mi ha colpito molto perché pur trattandosi di un mezzo meccanico come gli altri – i quattro shuttle che c'erano all'epoca erano praticamente uguali nella maggior parte delle cose -, è come se uno si ricordasse della sua prima macchina. È vero che è un'unità uguale alle altre, ma per me il Columbia era molto speciale. Ma ovviamente e soprattutto per le persone che c'erano a bordo, persone che condividono con te lo stesso senso di avventura, lo stesso entusiasmo, che hanno un profilo molto simile al tuo, hanno vissuto con te in un mondo che sembra molto grande e invece è relativamente piccolo. E quindi si capisce bene cosa ciò possa significare. Per cui mi ha colpito enormemente e sono quelle cose che ti riportano con i piedi sulla Terra. Perché tu fai un'attività esaltante, sai che ci sono dei rischi, non li sottovaluti, però poi hai un incidente che ti riporta alla realtà. E questo ti colpisce molto.

Torneremo sulla Luna molto presto, in base alla tabella di marcia della NASA. E per restarci. Secondo lei riusciremo davvero a raggiungere Marte attorno alla metà degli anni '30 come si vocifera? Tra i problemi principali di cui si è parlato vi sono le radiazioni alle quali sarebbero esposti gli astronauti durante il lungo viaggio e altri relativi alle manovre di “ammartaggio”.

Diciamo che in prospettiva ce la faremo, ma non mi sbilancio sull'anno. È un traguardo molto sfidante, Marte, per una serie di ragioni, a partire dal fatto che è un viaggio che dura due anni, in cui bisogna stare un anno su Marte per un duplice viaggio di sei mesi (il riferimento è al fatto che si sfrutta il perigeo del Pianeta Rosso, che ha un'orbita fortemente ellittica e dunque i viaggi sono ovviamente indicati quando Marte è più vicino NDR). L'altra cosa che rende bene l'idea, al di là delle distanze, è che se noi chiediamo a un astronauta che sta sulla Stazione Spaziale Internazionale “come stai?”, una frazione di secondo dopo ti dice “bene”. Se uno ti risponde dalla Luna ci vuole qualche frazione di secondo in più, ma per Marte ti risponde dopo 20 minuti. E questo dà un'idea della situazione. Bisogna quindi sviluppare una tecnologia che si basa molto sull'intelligenza artificiale, che auto-impara, perché non hai più il controllo della missione che tempestivamente ti può avvertire che qualcosa sta accadendo. Anche nell'addestramento degli astronauti bisogna passare a un concetto di autonomia che oggi forse non c'è, perché oggi c'è un controllo continuo sulla stazione spaziale e tempo fa c'era sullo shuttle. Questo è anche un salto filosofico sul tipo di addestramento.

Pensando ancora più in grande, il fresco vincitore del premio Nobel Michel Mayor, che ha scoperto il primo esopianeta assieme a Didier Queloz, sostiene che l'uomo non andrà mai sui pianeti extrasolari. Lei che è anche un imprenditore impegnato nel settore della tecnologia, crede che un giorno riusciremo a realizzare qualcosa in grado di viaggiare così velocemente da raggiungere in tempi “umani” gli esopianeti più vicini? Crede alla vita al di fuori della Terra?

Devo dire che io mi auguro che ci riusciremo. Perché sono una di quelle persone che crede che non siamo soli. Per una questione di statistica, con cento miliardi di sistemi diciamo simili al Sole solo nella nostra galassia, e cento miliardi di galassie conosciute, sarebbe proprio arrogante pensare che siamo soli. E poi se uno lo vede anche sfasato nel tempo, il prima, il dopo, l'adesso. Che ci sia una vita come la conosciamo noi sulla Terra su quello posso avere dei dubbi, però se uno pensa che adesso hanno scoperto delle spore all'esterno Stazione Spaziale Internazionale che riescono a sopravvivere quindici giorni nel vuoto assoluto, questo ci fa capire che la vita può prendere tanti tipi di forme. Quindi penso che da qualche altra parte qualcosa ci sia. La speranza è dunque di riuscire a vederla questa vita e di entrarci in contatto; poi se ci capiamo non lo so, però almeno entrarci in contatto.

È intervenuto dallo Sport Tech District nell'ambito del Festival dello Sport; quanto le è servita la preparazione da astronauta e pilota di caccia per conquistare la vetta dell'Everest e quanto è importante la tecnologia negli allenamenti di oggi?

La tecnologia conta tanto; sono stato contentissimo di essere stato invitato allo Sport Tech District di Trento. Ho fatto una piccola impresa perché ovviamente non sono un alpinista di quelli titolati, e ho raggiunto un mio sogno. Ho fotografato l'Everest dall'orbita terrestre e quando poi ho visto la foto mi son detto “prima o poi ci salirò”. Poi rimane una di quelle cose come “prima o poi mi faccio un anno sabbatico”, e uno non ha mai tempo per farlo. Poi tre anni fa mi sono detto, "sull'Everest non posso andare a 80 anni", o mi decido adesso o non lo farò mai più. Quindi adesso. E devo dire che nell'allenamento e nell'approccio, ho applicato molto di quello che avevo imparato come astronauta. Soprattutto sviluppare le competenze, le skill che non avevo. Quindi mi sono scelto una guida nella Val D'Aosta – sono fortunato perché abitando a Torino ho quasi tutti i quattromila italiani da quelle parti – e sono andato in giro tutta l'estate con questa guida, perché volevo avere due risposte. Una da me e una da lui. Quella da me era alla domanda “ti piace?”, se non ti piace è meglio lasciar perdere; e da lui volevo sapere se potenzialmente fossi in grado di salire sull'Everest. Perché altrimenti diventava anche quella una perdita di tempo. Le risposte sono state tutte e due sì, sia la mia che la sua, e allora mi sono allenato di nuovo tutta l'estate successiva (quella del 2017); poi ad agosto sono andato sul Kilimangiaro, che è quasi un seimila metri, a dicembre sull'Aconcagua che è quasi un settemila metri, e quindi diciamo che ho applicato questo metodo progressivo, per sviluppare delle skill e anche per capire quali fossero le mie reazioni. Ho cercato di prepararmi nel miglior modo possibile per qualunque evenienza, dopo essermi documentato su blog e libri di alpinisti vari.

Poi ad aprile dell'anno scorso siamo partiti con l'idea di salire, e come si sa, si sale solo se la montagna ti lascia salire, perché il meteo è una componente estremamente importante nella sua conquista. Io sono stato fortunato, e ci vuole sempre anche un po' di fortuna nella vita – lo dico sempre -, abbiamo preso una giornata dove non c'era una nuvola in tutto il cielo e non c'era un filo di vento, forse una di quelle giornate che sull'Everest ce ne sono due in tutto l'anno. Sono arrivato su alle 5:30 del mattino, all'alba, dopo essere salito per tutta la notte, e mi sono messo a piangere per l'emozione, per il grande sforzo fisico. Poi quasi a novemila metri si intravede la curvatura della Terra. Io a quelle quote lì c'ero stato solo in aeroplano. Il metodo che ho avuto mi è servito molto per affrontarlo con una certa progressione, acquisendo le skill e le competenze che non avevo e che invece servono per affrontare quell'ambiente. Una delle prime cose che ho fatto è guardare verso l'alto e ripensare alla foto scattata da lassù.

In questo momento Luca Parmitano è il comandante della Stazione Spaziale Internazionale, un grandissimo riconoscimento per l'astronauta che inorgoglisce l'intero Paese. Secondo lei l'Italia giocherà un ruolo fondamentale nella rinvigorita “corsa allo spazio”?

Io penso proprio di sì, perché l'Italia lo è stata nel passato sia per missioni scientifiche che per missioni con persone a bordo, e l'Italia ha sviluppato questa capacità tecnica legata ai moduli pressurizzati che ne hanno fatto un partner assolutamente centrale nella costruzione della Stazione Spaziale Internazionale, sia direttamente con la NASA che con la partecipazione dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA). Per la futura base lunare si parla di una stazione in orbita lunare e poi di una stazione proprio sulla superficie della Luna, dove i moduli pressurizzati devono essere necessariamente presenti per poter sopravvivere. Quindi penso a questa tecnologia con i dovuti accorgimenti e con gli sviluppi legati all'innovazione tecnologica che c'è stata dagli anni passati ad adesso. L'Italia ha questa capacità industriale che è unica a livello europeo, se non a livello mondiale. Per cui io penso – e me lo auguro – che questa capacità la renderà uno dei partner pivot, come dicono in inglese, un partner centrale di questo nuovo programma che ci porterà sulla Luna e io spero anche verso Marte, in un futuro che possa vedere.

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