La variante inglese del coronavirus non è più mortale: lo conferma uno studio
La variante inglese del coronavirus SARS-CoV-2 non è più letale di quelle già circolanti e non provoca un tasso maggiore di casi gravi di COVID-19. Un'ottima notizia, se si tiene conto dell'apprensione che sta suscitando tra scienziati e istituzioni, tanto da aver spinto diversi Paesi a bloccare i voli da e per il Regno Unito. Tutto è iniziato lo scorso settembre, quando per la prima volta è stato identificato un nuovo lignaggio del patogeno emerso in Cina, che nel giro di poche settimane è divenuto quello dominante, diffondendosi in tutta la Gran Bretagna a partire dall'Inghilterra sudorientale. A causa dell'estrema velocità con cui ha guadagnato lo “scettro” di variante principale, gli scienziati hanno sospettato sin da subito che essa – chiamata B.1.1.7 – fosse decisamente più trasmissibile di quella “selvatica” (o wild type), con una capacità di contagio tra il 50 e il 70 percento maggiore. Ora, grazie a uno studio ad hoc, è stata confermata questa spiccata contagiosità del nuovo ceppo, che si riflette in un indice Rt tra lo 0,4 e lo 0,7 superiore rispetto alla variante selvatica. Nonostante questa caratteristica, legata alle 17 mutazioni rilevate attraverso il sequenziamento genomico, è stato fortunatamente confermato che B.1.1.7 non è più letale.
A determinare che la variante inglese ha il medesimo tasso di letalità del lignaggio “originale” del coronavirus SARS-CoV-2 è stato un team di ricerca britannico guidato da scienziati della Public Health England (PHE), l’Agenzia governativa del Dipartimento della Sanità e dell’Assistenza sociale del Regno Unito, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi dell'Imperial College London, dell'Università di Birmingham, dell'Università di Edimburgo e del Wellcome Sanger Institute. Gli scienziati, coordinati dalla dottoressa Susan Hopkins, consulente medico senior dell'agenzia britannica, sono giunti alle loro conclusioni dove aver messo a confronto i dati delle cartelle cliniche di 1.769 pazienti contagiati dalla variante B.1.1.7 (cui la PHE ha assegnato il nome di Variant of Concern 202012/01 – VOC-202012/01) con quelli di un numero identico di soggetti infettati dal ceppo selvatico. Hopkins e colleghi hanno messo a confronto due gruppi di pazienti abbinati per età, sesso, posizione geografica, data in cui sono stati sottoposti al tampone oro-rinofaringeo e altro ancora, proprio per indagare su un campione uniforme, non influenzato da fattori che potessero in qualche modo “contaminare” l'efficacia dell'analisi.
Incrociando i dati, come indicato, non sono state rilevate differenze statisticamente significative tra i tassi di mortalità e infezioni gravi registrati nei due gruppi di pazienti. Come emerso dall'analisi, delle oltre 3.500 persone coinvolte nello studio ne sono state ricoverate in ospedale in 42, 26 con la variante selvatica e 16 con la variante inglese. Fra esse, sono deceduti 12 pazienti con la variante B.1.1.7 e 10 contagiati dal ceppo originale. Come specificato da Hopkins e colleghi, si tratta di "differenze statisticamente non significative". Gli scienziati hanno inoltre determinato che il rischio di reinfezione a tre mesi di distanza dal primo contagio era analogo in entrambi i gruppi di pazienti; sono risultati contagiati una seconda volta due soggetti nel gruppo “wild type” e tre in quello della nuova variante. La maggiore contagiosità è stata invece confermata dal fatto che il 15 percento dei contatti di chi aveva la variante inglese si era infettato, contro il 10 percento di chi era entrato in contatto con i pazienti del gruppo portatore del lignaggio originale. I dettagli della ricerca “Investigation of novel SARS-CoV-2 variant -Variant of Concern 202012/01 – Technical briefing 2” sono stati pubblicati sul sito di Public Health England.