La variante Delta non sarà l’ultima: gli scenari che ci aspettano
Nuove varianti del coronavirus “ci saranno sempre”. Lo prevede la teoria evoluzionistica che ci mette in guardia da quanto potrebbe accadere in futuro. Alcuni ricercatori ipotizzano che Sars-Cov-2 raggiungerà una variante “finale”, ma prima di stabilizzarsi in tale forma dominante, potrebbe avere ancora qualche asso nella manica. A delineare i possibili scenari futuri è un recente studio presentato dal Comitato consultivo per le emergenze (SAGE, Scientific Advisory Group for Emergencies) del Regno Unito che ha esplorato le strade evolutive che il virus di Covid-19 potrebbe percorrere in base alle possibilità di variazione.
Secondo gli studiosi, le mutazioni in grado di conferire qualche vantaggio selettivo a Sars-Cov-2 potrebbero condurre a quatto scenari principali: i primi tre rappresentano una “possibilità realistica” e l’ultimo, il più auspicabile per l’uomo, sarebbe “improbabile” nel breve termine, ma pur sempre possibile nel lungo termine. Chiaramente, tutti gli scenari valutano l’evoluzione virale che ha avuto luogo finora e spiegano perché la variante Delta sia diventata quella dominate a livello globale, avendo questa versione virale accumulato mutazioni in grado di conferire al patogeno un indice di trasmissione R superiore a quello del ceppo originario e delle varianti precedenti. Alcune prove indicano inoltre che la Delta avrebbe un tempo di incubazione molto più breve, che potrebbe essere correlato a una carica virale più elevata (più copie del virus) nei soggetti infetti, che potrebbero quindi trasmettere il virus più facilmente (all’aria aperta o con un breve contatto).
E le varianti future?
Nel breve termine, è molto probabile che l’evoluzione continuerà a “perfezionare” il virus, aumentando il valore di R (più persone infettate da un solo positivo), diminuendo il tempo di incubazione (le persone diventano contagiose più rapidamente) e/o conferendo resistenza a farmaci e vaccini. Per il SAGE è quasi certo che ci sarà questa “deriva genetica”, un accumulo di piccole mutazioni che potrebbero “influenzare l’abilità del virus e la gravità della malattia” e d’altra parte “influire sulla trasmissione virale e sulla resistenza agli anticorpi”.
Il primo scenario, in particolare, descrive l’emergere di una variante che causa una malattia grave in una parte più ampia della popolazione di quanto si sia verificato fino ad oggi, ad esempio con morbilità (numero di casi in un determinato periodo) e mortalità simili ad altri coronavirus, come Sars-Cov (circa 10% di mortalità) o Mers-Cov (circa 35% di mortalità). In questo caso, a meno che a livello della proteina Spike non si accumulino ulteriori mutazioni di fuga immunitaria, gli autori ritengono “molto probabile che gli attuali vaccini continuino a fornir protezione dalla malattia grave”, pur attendendosi “un aumento della morbilità e mortalità” anche nei vaccinati dal momento che i vaccini “non prevengono completamente l’infezione nella maggior parte delle persone”. Pertanto andrebbero considerate dosi di richiamo per mantenere la protezione contro la malattia gravi, l’adozione di misure di contrasto della trasmissione e introduzione di nuove varianti da altri territori (per ridurre il rischio di ricombinazione tra varianti).
Il secondo scenario analizza invece la possibilità che emerga una nuova variante in grado di eludere i vaccini. Questa prospettiva richiederebbe la rapida introduzione di sieri aggiornati che possano essere utilizzati con successo come le attuali formulazioni nei confronti del ceppo originario e le varianti finora emerse.
Analogamente, il terzo scenario vede l’emergere di una variante resistente, ma in questo caso capace di contrastare l’azione di terapie antivirali specifiche. “Quando inizieremo a utilizzare i farmaci antivirali ad azione diretta – indica il SAGE – è molto probabile che verrà selezionata una variante che abbia resistenza ai singoli agenti antivirali”. Anche questa ipotesi è considerata come probabile dagli studiosi, a meno che gli stessi farmaci non vengano usati correttamente.
Infine, il quarto scenario vedrebbe una traiettoria evolutiva che conduce a una variante virale meno aggressiva. Questa ridotta virulenza o capacità del virus di causare malattia grave si verificherebbe con la maggiore trasmissibilità del virus, ovvero quando il patogeno si adatta completamente all’ospite umano, provocando un’infezione endemica, insieme a un’eventuale immunità di popolazione. “In altre parole, questo virus diventerebbe come altri CoV umani che causano raffreddori comuni, ma con malattie molto meno gravi prevalentemente negli anziani o nei soggetti clinicamente vulnerabili – indica il SAGE che, ad ogni modo, ritiene questa possibilità “improbabile a breve termine, sebbene realistica a lungo termine”.
Il report sottolinea le mutazioni che potrebbero emergere possano verificarsi sia come cambiamento (mutazioni puntiformi o ricombinazione con altri geni dell’ospite o virali) del virus, ma anche per ricombinazione tra due diverse varianti del coronavirus, come ad esempio una ricombinazione tra Beta e Alfa o Delta rispettivamente.
Un’altra possibilità realistica è che il virus vada incontro a una “zoonosi inversa” con l’emergere di un virus più pericoloso per l’uomo o in grado di eludere i vaccini esistenti. “Questo sarebbe uno scenario in cui SARS-CoV-2 infetta gli animali, prima di tornare negli esseri umani – ha spiegato Hamish McCallum, Direttore del Centro per la salute planetaria e la sicurezza alimentare della Griffith University di Brisbane, in Australia, che non è stato coinvolto nello studio – . Abbiamo già visto SARS-CoV-2 infettare visoni, felini e roditori. Quindi possiamo aspettarci future pandemie quando i virus animali si riverseranno negli esseri umani, proprio come hanno fatto in passato”.