Il punto sulla clonazione, 16 anni dopo la pecora Dolly
Al Royal Museum di Edimburgo c’è una pecora che sembra viva: ha lo sguardo placido, sereno, la corporatura in buono stato. È Dolly, il primo mammifero ad essere stato clonato. È impagliata, dietro una teca di vetro. In qualche modo vivrà per sempre, nonostante sia morta nel 2003, a sette anni, piuttosto precocemente (le pecore possono vivere tra i 15 e i 20 anni), per un’infezione polmonare. La clonazione, assicurarono gli scienziati, non c’entrava: Dolly era stata semplicemente sfortunata. L’infezione aveva colpito altri animali in quella fattoria. Oggi sono passati sedici anni da quando, il 5 luglio 1996, al Roslin Institute, in Scozia, in un attrezzatissima stazione per le ricerche di frontiera nella zootecnia, Dolly veniva al mondo, copia identica di sua madre. D’accordo, le pecore si assomigliano un po’ tutte. Ma andando a leggere in profondità il codice genetico, Dolly avrebbe dimostrato di avere – unico mammifero al mondo fino ad allora – lo stesso identico DNA della madre.
Perché clonare un animale
La clonazione è un vecchio gioco che i biologi imparano a svolgere senza troppi problemi in laboratorio, anche all’università, soprattutto con rane e girini, che si prestano facilmente perché i cloni si sviluppano all’interno delle uova e non necessitano di un utero. Con i mammiferi la cosa è più complessa. Una volta inserito il nucleo cellulare del donatore – con all’interno il suo prezioso corredo genetico da “copiare” – in una cellula privata di nucleo, bisogna inserirla in un utero e attendere la gestazione. Operazione lunga, durante la quale molte cose possono andare storte. Ma con Dolly andò tutto bene, e da allora la clonazione di mammiferi è diventata quasi una banalità.
Nelle aziende zootecniche più moderne, la clonazione viene usata per ottenere un esemplare identico a un “campione”. Nel 1999 in Italia nacque Galileo, clone di un toro campione di razza bruna. È il primo clone al mondo di un toro. Nel 2003 la stessa azienda, Avantea, fece nascere il primo clone di un cavallo, Prometea, nata tra l’altro dalla stessa madre di cui era clone (cosa che non era stata testata né con Dolly né con gli altri cloni, per i quali i donatori delle cellule non erano anche gli esemplari che portavano a termine la gravidanza). Molti allevatori hanno successivamente iniziato a clonare i migliori esemplari di mucche, pecore e suini dei loro allevamenti, per migliorare la produttività. E da subito sono iniziate le polemiche sulla possibilità di trovare sulle nostre tavole latte e carne di animali clonati.
In realtà, il costo ancora piuttosto elevato della tecnologica di clonazione rende poco conveniente per l’allevatore destinare alla produzione il capo clonato: esso tende invece a essere impiegato come matrice di una migliore progenie, in termini di salute e produttività, così che in un più ampio arco di tempo i benefici della clonazione di un solo capo “campione” possano coprire i costi. È la progenie, quindi, a poter finire sulle nostre tavole, non l’animale clonato. Che, detto per inciso, non subisce tecniche di ingegneria genetica vera e propria, nel senso che il suo cromosoma non viene assolutamente toccato. Certo, sarebbe assurdo sostenere che la clonazione non vada “contro natura”; ma l’artificialità del procedimento non ha nulla a che vedere con il prodotto finito. L’animale clonato è del tutto indistinguibile da un animale nato in modo naturale, considerando che segue il normale procedimento di gestazione e di svezzamento.
Cani, gatti e… dinosauri?
Pochi avrebbero da ridire se venisse loro concessa la possibilità di clonare animali domestici a cui erano particolarmente affezionati in vita. Il procedimento è naturalmente molto costoso, nell'ordine di alcune decine di migliaia di dollari, ma qualche amante degli animali sufficientemente facoltoso si è già avvalso di questa possibilità, molto pubblicizzata da aziende di biotecnologia interessate a rapidi guadagni dalle tecniche di clonazione. Avremo di nuovo il nostro cane o gatto cucciolo, che seguirebbe l’ordinario processo di crescita. Ma attenzione: potremmo non riconoscere più il nostro animale, per il semplice fatto che non è davvero lui, ma solo una copia. E una copia genetica non si comporterà nello stesso identico modo dell’originale, perché i processi mentali non sono frutto dell’espressione genetica se non in minima parte. Per il resto, sono il naturale prodotto dell’esperienza.
La questione più interessante da questo punto di vista è la possibilità di clonare animali estinti, o a rischio di estinzione. In quest’ultimo caso, si potrebbe garantire la sopravvivenza della specie nel caso in cui ciò non fosse possibile in modo naturale. Nel primo caso, il problema deriva dalla necessità di avere DNA integro e ben conservato. Non tutti gli animali estinti hanno lasciato dietro di sé esemplari morti ben conservati da cui estrarre cellule per la clonazione. Senza contare un altro problema: nel caso di mammiferi, bisognerebbe procedere all’impianto della cellula in un utero ospite, che non potrebbe essere quello della specie originale. Per dirla semplicemente, seppure avessimo il DNA di un mammut, cosa ritenuta possibile, dovremmo farlo nascere nell’utero di un elefante, l’unico animale vivente che gli si avvicina di più dal punto di vista anatomico. L’idea cara allo scrittore Michael Crichton, quella di ricreare i dinosauri per clonazione, è impossibile perché non è stato ritrovato un genoma integro, e l’ipotesi fantascientifica di Jurassic Park – in cui le interruzioni del genoma venivano riempite da pezzi presi dal DNA di anfibi o rettili – è implausibile.
Clonazione umana
Nel corso degli anni, diversi genetisti anticonvenzionali hanno dichiarato di aver portato a termine la clonazione di esseri umani. Ma a nessuno di questi annunci ha fatto seguito la produzione di prove tali da passare il vaglio di riviste scientifiche. Anche se il procedimento è fattibilissimo con le attuali tecnologie, l’interesse a clonare un essere umano è nullo se l’obiettivo è quello di avere una copia di se stesso, perché il clone – anche se potrà essere identico come una goccia d’acqua all’originale – avrà verosimilmente una psicologia completamente diversa. Per essere chiari, potremmo anche clonare Hitler, se possedessimo cellule da cui partire, ma è probabile che il suo clone diventi in futuro un onesto membro della società civile.
Il discorso cambia se pensassimo di clonare esseri umani per fini medici. In teoria, avere una copia di noi stessi potrebbe essere utile per estrarre organi da reimpiantare nel nostro corpo qualora ne avessimo bisogno. Questo chiuderebbe per sempre tutti i problemi legati al trapianto degli organi e allungherebbe significativamente la nostra speranza di vita. Naturalmente, sarebbe del tutto inaccettabile sul piano etico. “Allevare” cloni umani per queste finalità è abominevole, e nessuno lo permetterebbe. Il romanzo di Kazuo Ishiguro Non lasciarmi, da cui di recente è stato tratto l’omonimo film, prevede qualcosa del genere: cloni creati e cresciuti appositamente per fornire organi agli esseri umani. L’Unione europea ha espressamente vietato nei suoi trattati la clonazione umana, per qualsiasi fine. E su questo nessuno può avere qualcosa da ridire.