I vaccinati hanno più probabilità di essere infettati dalle varianti che dal ceppo originale
Le varianti di preoccupazione (VOC) del coronavirus SARS-CoV-2 vengono classificate come tali dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) quando mostrano caratteristiche in grado di rendere il patogeno pandemico più trasmissibile, aggressivo e/o elusivo nei confronti degli anticorpi neutralizzanti, sia quelli indotti da una precedente infezione naturale (catalizzando il rischio di reinfezione) che quelli derivati dalla vaccinazione. Sebbene diversi studi hanno dimostrato che i vaccini già approvati per l'uso di emergenza risultano efficaci contro le principali varianti in circolazione, una nuova indagine israeliana mostra tuttavia che le infezioni registrate tra i vaccinati sono principalmente innescate da questi ceppi mutati, segno della loro migliore capacità di "sfondare" le difese immunitarie.
A condurre il nuovo studio è stato un team di ricerca guidato da scienziati della Facoltà di Scienze della Vita “George S. Wise” dell'Università di Tel Aviv, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Clalit Research Institute, dell'Istituto Gertner del Chaim Sheba Medical Center, della Facoltà di Scienze della Salute dell'Università Ben Gurion del Negev, del Laboratorio di virologia clinica del Soroka University Medical Center e di altri istituti israeliani. Gli scienziati, coordinati dal professor Adi Stern, docente presso lo Shmunis School of Biomedicine and Cancer Research dell'ateneo di Tel Aviv, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver messo a confronto i tassi di infezione tra persone vaccinate con una o due dosi del vaccino anti Covid di Pfizer-BioNTech e quelli di persone non vaccinate, tutti facenti parte del Clalit Health Service, la più grande organizzazione di sanità del Paese mediorientale che assicura 4,7 milioni di persone, il 53 percento della popolazione israeliana.
Tra il 3 gennaio e il 7 marzo 2021 gli scienziati hanno rilevato circa 3.500 infezioni da coronavirus SARS-CoV-2 tra chi era stato parzialmente o completamente vaccinato, ma solo per 433 (247 vaccinati con una dose e 149 con due dosi) erano disponibili i dati del sequenziamento genetico, necessario per determinare la variante responsabile dell'infezione. Ciascun vaccinato infettato è stato abbinato a una persona contagiata non vaccinata (gruppo di controllo), che è risultata positiva in una data simile e aveva caratteristiche demografiche simili (come età, sesso, etnia e luogo di residenza), per ridurre al minimo l'impatto dell'esposizione differenziale. Dall'analisi delle sequenze è stato dimostrato che le probabilità di infezione da variante Alfa (ex inglese B.1.1.7) erano due volte più elevate tra chi era parzialmente immunizzato rispetto a chi era stato infettato ma non era stato vaccinato, mentre non è stata riscontrata alcuna differenza tra chi era completamente vaccinato e i non vaccinati. Dall'analisi delle sequenze genetiche gli scienziati hanno anche dimostrato che i vaccinati risultati positivi (almeno dopo sette giorni dopo la seconda dose) erano molto più colpiti dalla variante Beta (ex sudafricana B.1.351), sebbene vada tenuto presente che queste infezioni sono state rilevate prima del quattordicesimo giorno dalla seconda iniezione, quando si innesca la copertura vaccinale completa.
I risultati suggeriscono che l'efficacia del vaccino di Pfizer-BioNTech è ridotta sia contro la variante Alfa che contro quella Beta in determinate finestre temporali, pertanto il professor Stern e i colleghi sottolineano l'importanza di continuare a tracciare in modo rigoroso le varianti del SARS-CoV-2 e di proseguire speditamente con la campagna vaccinale per evitare la diffusione dei nuovi lignaggi. I dettagli della ricerca “Evidence for increased breakthrough rates of SARS-CoV-2 variants of concern in BNT162b2-mRNA-vaccinated individuals” sono stati pubblicati sulla rivista Nature Medicine.