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Covid 19

I tamponi rapidi potrebbero non individuare le varianti del coronavirus

I tamponi antigenici (o rapidi) sono preziosi negli screening di massa per scovare potenziali positivi al coronavirus SARS-CoV-2, tuttavia l’emersione delle nuove varianti suggerisce cautela nel loro utilizzo. Poiché infatti vanno a caccia dell’antigene (la proteina S o Spike del virus), le varianti mutate potrebbero sfuggire al test dando come risultato dei falsi negativi.
A cura di Andrea Centini
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Da quando è scoppiata la pandemia di COVID-19, ormai da circa un anno, sono entrati a far parte della nostra vita quotidiana termini e procedure necessari per la gestione del coronavirus SARS-CoV-2. Fra essi figurano indubbiamente i tamponi, ovvero i prelievi di materiale biologico (dal naso o dall'orofaringe) sul quale si conducono analisi per determinare una eventuale positività al patogeno emerso in Cina. Essi si dividono fondamentalmente in due categorie: i tamponi molecolari, veri e propri test diagnostici che vanno a caccia dell'RNA virale tramite una procedura di laboratorio chiamata reazione a catena della polimerasi a trascrizione inversa (RT-PCR), e i tamponi antigenici, conosciuti comunemente come tamponi rapidi. Questi ultimi sono decisamente meno sensibili dei molecolari poiché ricercano l'antigene (la proteina S o Spike del coronavirus), tuttavia forniscono un risultato in appena 15-30 minuti e possono essere utili per gli screening di massa, ad esempio nelle scuole, negli aeroporti, nei grandi eventi pubblici e via discorrendo. Chi risulta positivo al tampone rapido, non trattandosi di un test diagnostico, deve sottoporsi al molecolare per avere la conferma (i risultati possono giungere anche 48 ore dopo, dato che si passa per il laboratorio). Con l'emersione di diverse varianti del coronavirus SARS-CoV-2, tra le quali le più preoccupanti sono la inglese, la sudafricana e la brasiliana, ci si interroga sulla capacità dei tamponi rapidi di identificare anche questi nuovi lignaggi, continuando a dare un prezioso contributo nella lotta alla pandemia.

A fare chiarezza è il professor Francesco Broccolo, virologo presso l'Università di Milano-Bicocca. Intervistato dall'ANSA, lo scienziato ha spiegato che i “i test antigenici riconoscono il virus nativo e non ci sono al momento dati disponibili per verificare se questi siano in grado di riconoscere la proteina S modificata delle varianti”. In parole semplici, non sappiamo quale sia la loro efficacia con questi lignaggi. Com'è noto i ceppi emergenti del SARS-CoV-2 sono caratterizzati da modifiche (mutazioni) a livello della glicoproteina superficiale, quella utilizzata per agganciarsi alle cellule umane, rompere la parete cellulare e dar via al processo di replicazione-infezione. A causa di queste modifiche la proteina S o Spike presenta una struttura differente, che non solo può sfuggire al controllo dei tamponi rapidi, ma anche influenzare la trasmissibilità, la letalità, la capacità di eludere i vaccini e gli anticorpi prodotti da precedenti infezioni naturali. Pertanto le varianti vanno monitorate e gestite attentamente, finanche con la necessità di produrre nuovi vaccini ad hoc (come sta facendo ad esempio AstraZeneca contro la variante sudafricana).

“Attualmente – ha spiegato il professor Broccolo all'ANSA – non ci sono studi che valutino se i test antigenici rapidi disegnati per riconoscere la proteina S del virus nativo funzionino sulle varianti del virus SARS-CoV-2 che sono note avere proprio mutazioni sulla proteina S del virus”. “Non sappiamo, quindi, se i test basati sul riconoscimento antigene S-anticorpo stiano rilevando le varianti attualmente in circolazione, così come non sappiamo se le nuove varianti riusciranno a sfuggire alle terapie con anticorpi monoclonali e ai vaccini che evocheranno una risposta anticorpale su virus nativo”, ha affermato lo scienziato. Poiché i test antigenici rapidi attualmente disponibili identificano la proteina Spike “che circolava nel febbraio 2020”, il virologo sottolinea che per identificare e tracciare le varianti è necessario sottoporsi al tampone molecolare. “Sappiamo che la nuova variante ha mutazioni nella regione S e di conseguenza il test potrebbe non vederle, rischiamo di avere dei problemi di falsi negativi”, aveva dichiarato lo scienziato alcune settimane addietro, riferendosi a uno dei nuovi ceppi.

Benché i tamponi rapidi di terza generazione hanno una sensibilità (capacità di identificare i pazienti malati) solo 5-10 volte inferiore rispetto ai molecolari, quelli di prima e seconda generazione – attualmente ancora diffusi – sono decisamente meno sensibili, e anche per questa ragione potrebbero complicare ulteriormente il lavoro di medici e scienziati nel tracciamento e nella diffusione delle nuove varianti. Fortunatamente la specificità, cioè la capacità di identificare i soggetti sani, viene definita come "buona" dagli esperti. Tuttavia, è sempre sul "tampone molecolare ad alta carica che si possono ricercare le nuove varianti con il sequenziamento", specifica il professor Broccolo. Un vantaggio ulteriore del tampone molecolare rispetto al rapido risiede del fatto che non è legato a uno specifico gene, ma a più geni, e ciò permette di ottenere un responso accurato anche in presenza di eventuali mutazioni a livello di specifiche regioni. Non va inoltre dimenticato che i produttori dei tamponi molecolari possono aggiornare costantemente le banche dati con le nuove informazioni sulle varianti in circolazione, e attraverso il sequenziamento si può determinare con quale ceppo del virus si ha a che fare. Naturalmente anche i test antigenici possono essere aggiornati, ma la situazione è al momento molto fluida e dunque per andare a caccia delle diverse varianti è necessario fare affidamento ai tamponi molecolari.

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