I pazienti COVID con sindrome di Down hanno un rischio 10 volte superiore di morire
La COVID-19, l'infezione provocata dal coronavirus SARS-CoV-2, è una malattia subdola che può comportare conseguenze gravi – e finanche fatali – anche in giovani perfettamente in salute, ciò nonostante si tratta di una esigua percentuale. La maggioranza dei pazienti che sviluppa complicazioni severe e muore per il contagio fa infatti parte delle fasce più vulnerabili della popolazione, come anziani (in particolar modo uomini) e soggetti con condizioni preesistenti (comorbilità) alla stregua del diabete, dei problemi cardiovascolari e dell'obesità. Tra chi risulta particolarmente a rischio vi sono anche le persone con sindrome di Down, una condizione genetica caratterizzata dalla presenza di tre copie del cromosoma 21 (e per questo nota come Trisomia 21). In base ai risultati dello studio “COVID-19 Mortality Risk in Down Syndrome: Results From a Cohort Study Of 8 Million Adults” pubblicato sulla rivista scientifica Annals of Internal Medicine, infatti, chi ha questa condizione presenta un rischio cinque volte maggiore di finire in terapia intensiva e dieci volte di morire per la COVID-19 rispetto alla popolazione generale. Alla luce di queste premesse, le persone con trisomia 21 dovrebbero essere in cima alla lista dell'imminente campagna vaccinale assieme a operatori sanitari e altre categorie più esposte, eppure in diversi Paesi – come gli Stati Uniti – non sono stati ancora incluse nel piano.
Ma perché le persone con sindrome di Down hanno un rischio maggiore di contagiarsi, sviluppare la forma grave della COVID-19 e di morire per essa? Le ragioni sono molteplici, come indicato in un articolo pubblicato sull'autorevole rivista scientifica Science. La prima spiegazione, sottolineano gli esperti, è anatomica. La lingua grande, le dimensioni relativamente superiori di tonsille e adenoidi, le mascelle piccole e il tono muscolare più lasso “aiuta a spiegare il loro più alto tasso di infezioni respiratorie in generale”, sottolinea Science. Ma sono le caratteristiche genetiche della condizione cromosomica a rendere le persone con sindrome di Down particolarmente suscettibili al virus. Esse infatti sul cromosoma 21 presentano tre copie del gene della proteasi transmembrana di tipo 2 (TMPRSS2), un enzima strettamente coinvolto nel meccanismo di infezione del coronavirus. Il patogeno lo sfrutta infatti nel momento in cui si aggancia con la proteina S o Spike al recettore ACE-2 delle cellule umane, scindendo la proteina e permettendo il passaggio dell'RNA virale all'interno della cellula, dove si avvia la replicazione che è alla base dell'infezione. Come specificato dalla professoressa Mara Dierssen, biologa dei sistemi presso il Center for Genomic Regulation di Barcellona, le persone con sindrome di Down esprimono 1,6 volte in più di TMPRSS2, e ciò potrebbe spiegare almeno in parte i dati sul rischio.
Anche alcune anomalie presenti nel sistema immunitario, come lo sviluppo non regolare delle cellule T e la bassa concentrazione delle cellule B, potrebbero spalancare le porte a un'infezione più aggressiva. Anche lo stato infiammatorio cronico può giocare un ruolo fondamentale. “Le cellule delle persone con sindrome di Down combattono costantemente un'infezione virale che non esiste”, ha dichiarato l'esperto di genomica Joaquin Espinosa, che lavora presso il Linda Crnic Institute for Down Syndrome dell'Università del Colorado. Lo scienziato in passato aveva dimostrato che la risposta dell'interferone, proteina che aiuta a combattere le infezioni virali, è costantemente attivata nei soggetti con trisomia 21, e questo può portare ad alterazioni in caso di COVID-19. Com'è noto, una delle complicazioni più severe della COVID-19 risulta essere proprio una risposta esagerata del sistema immunitario che determina iperinfiammazione, la cosiddetta “tempesta di citochine”, che a sua volta può sfociare nella sindrome da distress respiratorio acuto o ARDS. Queste condizioni possono innescare insufficienze multiorgano e determinare il decesso del paziente.
Un recente studio condotto da scienziati della Scuola di Sanità Pubblica “Rollins” dell'Università Emory ha determinato che il rischio di morire per COVID-19 nei pazienti con sindrome di Down diventa sensibilmente superiore dopo i 40 anni. Se infatti nei più giovani tale rischio è aumentato del 7 percento, per chi ha più di 40 anni si arriva a un +51 percento. “È un tasso di mortalità paragonabile a quello di coloro che hanno più di 80 anni nella popolazione generale”, ha dichiarato la professoressa Anke Huels, coordinatrice della ricerca. Alla luce di tutte queste considerazioni, gli esperti si aspettano che i pazienti con trisomia 21 – soprattutto quelli con età superiore ai 40 anni – siano tra i primi a essere vaccinati contro il coronavirus SARS-CoV-2, oltre a ricevere trattamenti con anticorpi monoclonali e altri farmaci che potrebbero aiutarli nella loro specifica condizione, come il baricitinib coinvolto nella risposta dell'interferone.