I guariti tornati positivi al coronavirus non sono contagiosi né sono stati reinfettati
Durante la diffusione della pandemia di coronavirus SARS-CoV-2 i medici hanno iniziato a osservare casi di pazienti che, dopo essere guariti dalla COVID-19 (l'infezione causata dal patogeno), a distanza di giorni o settimane sono risultati nuovamente positivi al tampone rino-faringeo. L'inquietante scoperta aveva lasciato ipotizzare che queste persone potessero essere ancora infettive, ma soprattutto, che potessero essere state infettate una seconda volta da qualcuno. Se ciò fosse stato vero, avrebbe significato che l'infezione da SARS-CoV-2 non determinava lo sviluppo di anticorpi in grado di proteggere da una seconda esposizione al virus. Fortunatamente le cose non stanno affatto così.
A confermare che i casi di "ri-positività" (successiva alla guarigione) non sono infettivi né sono stati contagiati una seconda volta sono stati i Korea Centers for Disease Control and Prevention (CDCK), i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie coreani. Proprio in Corea del Sud erano emersi numerosi casi di presunta recidiva da coronavirus, che nelle scorse settimane hanno allarmato il mondo intero. Il comitato scientifico dei CDCK è giunto alle proprie conclusioni dopo aver esaminato 285 casi di “ri-positivi”, il 63,8 percento di quelli noti nel Paese asiatico alla data del 15 maggio.
Gli scienziati hanno tracciato 790 contatti stretti dei 285 casi, e hanno scoperto che nessuno di essi era stato infettato dal patogeno, escludendo così che i pazienti fossero ancora infettivi dopo la guarigione (nonostante la nuova positività). Per 108 dei casi esaminati più a fondo, inoltre, pur risultando nuovamente positivi al tampone rino-faringeo erano negativi per l'intero virus. In altri termini, il test RT-PCR (reazione a catena della polimerasi inversa in tempo reale) rilevava materiale genetico del coronavirus SARS-CoV-2 nei campioni biologici, ma si trattava solo di frammenti del virus, e non di particelle virali integre e infettive.
Questo processo può essere spiegato dalle dichiarazioni dell'infettivologa ed epidemiologa americana Maria Van Kerkhove, responsabile tecnica della risposta all'emergenza COVID-19 presso Organizzazione mondiale della sanità (OMS). La scienziata, intervistata dall'emittente britannica BBC, ha infatti affermato che durante la guarigione le cellule morte dei polmoni contenenti RNA virale possono essere espulse, ma non si tratta “né di virus infettivo né di una riattivazione”. Essere positivi, in pratica, non significa automaticamente essere infettivi.
Uno degli aspetti più interessanti della vicenda risiede nel fatto che 284 dei 285 “ri-positivi” aveva nuovamente sviluppato sintomi della COVID-19. Alcuni di essi sono risultati positivi ad altri virus respiratori, quindi probabilmente si trattava della sintomatologia di una comune influenza o di un raffreddore, ma per alcuni non sono stati rilevati altri patogeni. Gli scienziati non hanno ancora ben chiare le origini di questa sintomatologia. Nella quasi totalità dei ri-positivi, infine, sono stati trovati anticorpi che indicano una immunità alla patologia, della quale tuttavia non è ancora chiara la durata. I dettagli delle analisi dei CDCK sono stati pubblicati in un rapporto ad hoc.