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Giornata Mondiale del Parkinson: obiettivo consapevolezza

L’11 aprile del 1755 nasceva a Londra James Parkinson, il medico che avrebbe descritto per la prima volta la malattia che porta il suo nome.
A cura di Nadia Vitali
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Degenerazione della substantia nigra
Degenerazione della substantia nigra

Con il progressivo anticiparsi della sua età d’esordio, la malattia di Parkinson sta perdendo lo status di patologia che colpisce esclusivamente le persone anziane: se, infatti, in Italia si registrano attualmente 300.000 casi (per lo più in soggetti di sesso maschile, che sono 1,5 volte in più rispetto alle donne) per un'età di comparsa compresa, per la gran parte, tra i 59 ed i 62 anni, non si può dimenticare come questa malattia stia manifestando già da tempo la tendenza a divenire sempre più "giovane". Principale causa di ciò è il perfezionamento delle diagnosi grazie alle quali sappiamo oggi che un paziente con il Parkinson su quattro ha meno di 50 anni, mentre uno su dieci ne ha meno di 40: un dato che dimostra come siano stati ottenuti dei piccoli miglioramenti nel campo della conoscenza del male ma che, tuttavia, non ha ancora consentito di mettere a punto una terapia che non si rivolga soltanto ai sintomi ma che possa contrastare la malattia nel suo stesso progredire, per quel 3 per mille di popolazione che ne soffre nei Paesi industrializzati.

Dall'esigenza di tenere sempre desta l'attenzione su una insidiosa patologia ancora misteriosa in troppi suoi aspetti nasce la Giornata Mondiale del Parkinson: la data dell'11 aprile è frutto di una scelta non casuale, dal momento che è il giorno in cui ricorre l'anniversario dalla nascita di James Parkinson, il medico londinese che per primo descrisse i sintomi tipizzanti della malattia: la perdita di forza muscolare, la lentezza nei movimenti, il tremore. Per la verità, la più antica testimonianza trattatistica del genere risale addirittura a Galeno (II secolo d. C.) ma comprensibilmente doveva essere piuttosto sommaria; anche in diversi medici di epoche successive si trovano riferimenti che documentano l'esistenza della malattia.

James Parkinson, però, fu il primo a dedicare un saggio (nel 1817) a quella "paralisi" della quale osservò con particolare attenzione le manifestazioni in un piccolo campione composto da sei individui, alcuni dei quali erano sui pazienti. Il primato però non gli fruttò la gloria e il suo lavoro restò ignoto ai più per ancora molto tempo, ossia fino a quando il medico francese Jean-Martin Charcot, tra il 1868 e il 1881, dedicò i propri studi a quella che lui stesso appellò la maladie de Parkinson, descrivendone con ulteriore accuratezza i sintomi con particolare attenzione rivolta alla rigidità muscolare, nel suo trattato sulle malattie nervose. Per conoscere però quali fossero le origini di quelle anomalie riscontrate nei pazienti bisognava ancora attendere qualche decennio: l'identificazione del ruolo fondamentale giocato dal neurotrasmettitore dopamina sarebbe infatti giunta negli anni '50, mentre pochi anni prima era stata individuata nella substantia nigra (formazione nervosa tra mesencefalo e diencefalo) la struttura maggiormente colpita in chi presentava i segnali della malattia. Nello stesso periodo si iniziava a sintetizzare il farmaco che, utilizzato dalla fine degli anni '60, sarebbe stato utilizzato nella terapia fino ad oggi, ossia la levodopa.

I notevoli progressi nell'arco di questi anni, tuttavia, non hanno consentito di risalire alle cause primarie del Parkinson che, al momento, si articolano ancora tutte attorno a due principali macro-ipotesi: da una parte, quella che vede nei fattori ambientali la possibile determinante (l'esposizione a metalli pesanti e ad alcuni insetticidi e pesticidi, ad esempio, alzerebbe notevolmente il rischio, secondo alcune teorie); dall'altra l'attenzione rivolta alla componente genetica. Quest'ultima, in effetti, è oggetto di crescente interessante dal momento che un gene "difettoso" sarebbe stato identificato nel 20% dei pazienti con storie di Parkinson in famiglia.

Quello che può aiutare nel contrasto alla malattia è la capacità di ottenere diagnosi sempre più precoci: il Parkinson causa la morte progressiva dei neuroni, fatto dal quale deriva l'abbassamento nei livelli di produzione della dopamina e, di conseguenza, la perdita del controllo sul proprio corpo. Solo che i primi sintomi legati a ciò inizierebbero a manifestarsi quando ormai già il 50% e più dei neuroni ha subito danni permanenti: si ipotizza che l'inizio del processo si collochi mediamente sei anni prima della diagnosi. L'intervento tempestivo con le cure può fornire un supporto immediato anche se, purtroppo, la levodopa causa numerosi effetti collaterali, dopo un lungo periodo di assunzione quotidiana; va comunque ricordato che esistono altri farmaci per la terapia in grado di controllare i sintomi che possono essere utilizzati nelle fasi d'esordio della malattia. Anche il ricorso alla chirurgia, tramite Stimolazione Cerebrale Profonda, è contemplato nell'ambito della terapia alla malattia. Su tutto, comunque, è ancora la ricerca scientifica ad essere la via principale per la conoscenza profonda, da cui la possibilità di una vera cura, del male.

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