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Covid 19

Esame del sangue identifica precocemente i pazienti COVID che rischiano la malattia grave

I livelli di DNA mitocondriale circolanti nel sangue dei pazienti con COVID-19, l’infezione provocata dal coronavirus SARS-CoV-2, possono essere un biomarcatore predittivo del decorso dell’infezione, anche nei soggetti giovani e sani. In uno studio condotto su 100 pazienti, chi aveva le concentrazioni più elevate presentava un rischio sensibilmente maggiore di finire in terapia intensiva o morire per la malattia. Con un semplice test del sangue si può dunque identificare precocemente chi rischia di più e intervenire per tempo.
A cura di Andrea Centini
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Grazie a un semplice esame del sangue può essere possibile identificare i pazienti contagiati dal coronavirus SARS-CoV-2 che rischiano di sviluppare le complicazioni peggiori e potenzialmente fatali della COVID-19. L'esame, basato sul medesimo principio della PCR (reazione a catena della polimerasi) che si esegue dopo i tamponi oro-rinofaringei, è rapido e mette in evidenza il rischio qualunque sia lo stato di salute del paziente che si presenta in ospedale, anche se è giovane e sano. Pur avendo maggiori probabilità di essere aggressiva e letale negli anziani e in chi soffre di patologie pregresse (comorbilità), infatti, la COVID-19 in rari casi può scatenare una malattia gravissima e mortale anche in soggetti giovani e in salute, come testimoniano i drammatici bollettini diramati ogni giorno. Ma per i medici non è facile prevedere quali di questi pazienti finirà in terapia intensiva, avrà bisogno di essere intubato e rischia di morire per l'infezione. Grazie al test del sangue, tuttavia, sarà possibile fare questa previsione con maggiore accuratezza, indirizzando verso le cure sperimentali e non disponibili per tutti – come ad esempio gli anticorpi monoclonali – solo chi risulta realmente avere un rischio maggiore.

A determinare l'efficace predittiva dell'esame del sangue è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati di vari dipartimenti della Washington University di Saint Louis, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi italiani delle divisioni di Chirurgia Toracica, Anestesiologia e Pneumologia presso l'Università Sapienza di Roma. Gli scienziati, coordinati dal professor Andrew E. Gelman della Divisione di Chirurgia Cardiotoracica dell'ateneo statunitense, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato i risultati dei prelievi effettuati su un centinaio di pazienti con COVID-19 al momento del ricovero. Ma su cosa si basa esattamente questo esame? Gli scienziati sono andati a “caccia” del DNA mitocondriale (MT-DNA) circolante, ovvero acidi nucleici “intrinsecamente infiammatori rilasciati da organi solidi danneggiati”, si legge nell'abstract dello studio. Com'è noto, in alcuni pazienti il coronavirus SARS-CoV-2 determina gravi danni ai tessuti, una vera e propria necrosi delle cellule che rilascia in circolo diversi composti, come appunto il DNA dei mitocondri, organelli conosciuti come le “fabbriche di energia” delle cellule. Pertanto, maggiore è la concentrazione di questo DNA circolante, maggiore è il danno tissutale indotto dal coronavirus SARS-CoV-2, che dunque può essere associato a un decorso più grave della patologia.

I ricercatori lo hanno dimostrato mettendo in relazione le concentrazioni di DNA mitocondriale rilevate dagli esami e l'evoluzione della COVID-19 nei 97 pazienti coinvolti nello studio, tutti ricoverati presso il Barnes-Jewish Hospital. Dalle analisi è emerso che i livelli di livelli di DNA mitocondriale “erano molto più alti nei pazienti che alla fine sono stati ricoverati in terapia intensiva, sono stati intubati o sono morti”, si legge in un comunicato stampa dell'ateneo americano. I ricercatori hanno scoperto che questa associazione era indipendente “dall'età, dal sesso e dalle condizioni di salute del paziente”. Le concentrazioni di DNA mitocondriale erano mediamente “dieci volte superiori nei pazienti con COVID-19 che hanno sviluppato una grave disfunzione polmonare o alla fine sono morti”, mentre chi presentava livelli elevati aveva “quasi sei volte più probabilità di essere intubato” e “tre volte più probabilità di essere ricoverati in terapia intensiva e quasi il doppio delle probabilità di morire rispetto a quelli con livelli inferiori”. In parole semplici, le concentrazioni del DNA mitocondriale nel sangue rappresenterebbero un vero e proprio biomarcatore della gravità dell'infezione da coronavirus.

“I virus possono causare un tipo di danno tissutale chiamato necrosi che è una risposta violenta e infiammatoria all'infezione. La cellula si apre rilasciando il contenuto, incluso il DNA mitocondriale, che a sua volta guida l'infiammazione. Nei pazienti COVID-19, ci sono state prove aneddotiche di questo tipo di danno cellulare e tissutale nei polmoni, nel cuore e nei reni. Pensiamo che sia possibile che le misurazioni del DNA mitocondriale nel sangue possano essere un segno precoce di questo tipo di morte cellulare negli organi vitali”, ha dichiarato il professor Gelman in un comunicato stampa. Gli scienziati stanno predisponendo uno studio multicentrico più ampio per averne definitivamente la conferma. I dettagli della ricerca “Rapid blood test identifies COVID-19 patients at high risk of severe disease” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica JCI Insight. In precedenza un team di ricerca italiano aveva dimostrato che un altro esame del sangue poteva avere capacità predittive sul decorso della COVID-19.

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