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Cos’è la variabile k e perché gli esperti la ritengono “la chiave” della pandemia di Covid-19

Accanto agli indici R0 ed Rt, un altro parametro, chiamato fattore di dispersione (k), permette di spiegare alcuni aspetti della trasmissione del coronavirus, incluso il motivo per cui un piccolo numero di persone (superdiffusori) è in grado di contagiarne molte altre.
A cura di Valeria Aiello
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Durante questa pandemia, in tanti avranno sentito parlare di R0, il numero di riproduzione di base, e dell’indice Rt, la misura della trasmissibilità della malattia legata alla situazione contingente. Ne parlavamo anche qui, spiegando che l’R0 rappresenta, in media, il numero di casi secondari di un caso indice in una popolazione suscettibile, mentre Rt indica la trasmissibilità in un determinato contesto, ovvero quando vengono messe in atto misure di contrasto della diffusione del patogeno, come ad esempio il lockdown, l’uso delle mascherine e il distanziamento sociale. Questi due parametri non permettono però di stimare alcuni determinati aspetti di questa pandemia, in particolare il motivo per cui, in alcune circostanze, un numero limitato di persone è in grado di infettarne molte altre.

Cos'è la variabile k?

In questi mesi è emerso che non tutti abbiamo la stessa capacità di trasmettere il virus e che una piccola percentuale di individui – che i ricercatori chiamano superdiffusori –  è in grado di determinare eventi di grande diffusione del contagio. Secondo alcune stime, almeno il 10-20% dei positivi può essere responsabile di circa l’80% dei nuovi casi di Covid-19, esercitando il ruolo di superspreader quando si trova nelle fasi iniziali dell’infezione e in ambienti chiusi con molte altre persone.

Per comprendere la distribuzione del fenomeno, ovvero descrivere se e quanto la diffusione di una malattia sia concentrata intorno a un ristretto numero di persone, i ricercatori fanno ricorso a un parametro diverso da R0 ed Rt, chiamato fattore di dispersione k, che in pratica indica quanto è alto il rischio che pochi individui ne infettino molti altri: a valori più bassi di k è infatti associato un maggiore rischio che poche persone possano contagiarne molte altre.

Finora, le stime di k per Sars-Cov-2 hanno però restituito una certa variabilità a livello individuale. Le prime determinazioni hanno indicato valori leggermente più bassi rispetto a quelli di altri coronavirus fino ad oggi conosciuti, come il virus della Sars, emerso in Cina nel 2002, e il virus della Mers, emerso nel 2012 in Arabia Saudita. Calcoli in parte confermati da uno studio recentemente pubblicato da un gruppo di ricercatori del Regno Unito che ha fornito una prima stima del fattore k di Covid-19, suggerendo che il suo valore si aggiri intorno allo 0,1, dunque poco più basso di quello della Sars (0,16) e comunque inferiore a quello della Mers (0,25) che, analogamente a Covid-19, sono state responsabili di eventi di superdiffusione.

Chiaramente esiste un rischio di contagio molto più elevato negli spazi chiusi rispetto a quelli aperti – dicono i ricercatori che identificano in  – contatto prolungato, scarsa ventilazione, presenza di un superdiffusore e di molte persone” i quattro elementi alla base di questi eventi. In tal senso, gli studiosi ritengono che il numero di casi potrà essere “drasticamente ridotto se verranno evitati alcuni scenari. Identificare le caratteristiche delle situazioni che possano portare a eventi di diffusione eccessiva giocherà un ruolo chiave nella progettazione di strategie di controllo efficaci”.

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