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Cosa succede se ritardi la seconda dose di vaccino Covid

Posticipare la seconda iniezione, ritardando la somministrazione del richiamo oltre l’intervallo raccomandato, può compromettere l’efficacia del vaccino. Ecco qual è il rischio di pratiche alternative allo schema vaccinale approvato.
A cura di Valeria Aiello
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Ritardare il richiamo dei vaccini anti-Covid, estendendo l’intervallo di tempo oltre quello raccomandato, può compromettere l’efficacia della vaccinazione. Adottare un diverso programma di dosaggio, come scelto dalla Gran Bretagna, il cui Comitato scientifico governativo ha raccomandato di posticipare la somministrazione della seconda dose a 12 settimane, è una strategia che esula dallo schema vaccinale approvato, cioè dal protocollo di sperimentazione che è stato testato su migliaia di volontari. Uno studio, è bene ricordarlo, indispensabile per dimostrare efficacia, sicurezza e reattogenicità dei farmaci e senza i cui risultati non è possibile richiedere e dunque ottenere il via libera delle Agenzie regolatorie.

Il rischio di ritardare il richiamo

Pratiche alternative possono essere rischiose. Il pericolo risiede nella protezione conferita da una sola dose dal momento che non è nota la durata dell’immunità conferita da una singola iniezione. Secondo i dati della sperimentazione del vaccino di Pfizer/BioNtech – le cui due dosi somministrate a distanza di 21 giorni l’una dall’altra hanno dimostrato un’efficacia del 95% nel proteggere dalle forme sintomatiche di Covid-19 – indicano che la prima dose è sufficiente a raggiungere un’efficacia contro la malattia sintomatica del 52% dopo 12 giorni. “Questa potrebbe diminuire se la seconda dose non arriva dopo tre-quattro settimane o sei settimaneha spiegato il Ceo di BioNTech, Ugur Sahin, cofondatore dell’azienda tedesca insieme alla moglie, Özlem Türeci, con cui ha sviluppato il vaccino.

Il pericolo è dunque che la protezione conferita da una singola dose possa diminuire nel tempo, con il rischio di ammalarsi di Covid che, nella migliore delle ipotesi, è soltanto dimezzato. Anche il vaccino di Moderna, arrivato questa settimana in Italia, richiede due dosi che, somministrate a distanza di 28 giorni l’una dall’altra, proteggono al 94,1% dalle forme sintomatiche di Covid.

L'intervallo tra la prima e la seconda dose

L’Agenzia italiana del Farmaco (Aifa) ha espresso la sua posizione riguardo alla strategia inglese e al rischio di somministrare una prima dose a quante più persone possibili, ritardando la seconda. Secondo gli studi pubblicati “una dose è sufficiente a provocare la desiderata risposta immunitaria entro due settimane e questa stessa risposta è fortemente potenziata dalla seconda dose”. In tal senso, gli esperti dell’Agenzia italiana sottolineano che “è necessario attenersi alle correnti indicazioni di somministrazione di due dosi per i vaccini finora approvati”.

Anche il Center for Disease Control, l’ente di controllo sulla sanità pubblica negli Stati Uniti, ha dichiarato che per entrambi i vaccini a mRna (Pfizer/BioNTech e Moderna) “la seconda dose deve essere somministrata il più vicino possibile all’intervallo raccomandato”, ovvero 21 giorni e 28 giorni rispettivamente. Analoga l’indicazione data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che, attraverso il gruppo consultivo strategico sull’immunizzazione, il SAGE, ha raccomandato un intervallo di tre-quattro settimane, dopo una revisione completa dei dati del vaccino di Pfizer/BioNTech che, ad oggi, è il solo ad aver ottenuto l’approvazione per l’uso di emergenza da parte dell’Agenzia sanitaria delle Nazioni Unite.

D’altra parte, di fronte alla limitata disponibilità di vaccini e alla grave situazione epidemiologica che alcuni Paesi si trovano ad affrontare, il ritardo nella somministrazione della seconda dose per estendere la copertura iniziale è un “approccio pragmatico” che, secondo l’Agenzia sanitaria delle Nazioni Unite, potrebbe essere considerato come una risposta a “circostanze epidemiologiche eccezionali”. La raccomandazione dell’OMS, al momento, è che “l'intervallo tra le dosi possa essere esteso fino a 42 giorni (6 settimane), sulla base dei dati degli studi clinici attualmente disponibili”.

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