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Cosa resta dell’uomo? Intervista a Marc Augé

L’antropologo che ha legato la sua fama agli studi sulla realtà metropolitana del presente parla del futuro e sulla possibilità dell’uomo di potersi riappropriare di questo.
A cura di Nadia Vitali
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intervista a marc auge

Marc Augé, etnologo ed antropologo, la cui fama è legata principalmente alle sue osservazioni e studi della realtà urbana contemporanea: celebre la sua definizione di non-luogo come immagine rappresentativa del nostro presente metropolitano in cui spazi costruiti e messi a punto con una specifica funzione (commercio, svago, trasporto ma anche campi profughi) fanno da punto di incrocio quotidiano per migliaia di individui che, però, non entrano mai in relazione tra di loro. In questi non –luoghi tutto ciò che conta è la velocità e, soprattutto, la corsa al consumo, protagonista assoluta dei nostri tempi a livello planetario, accompagnata da una solitudine generalizzata, definita dallo stesso autore come un «problema politico in senso largo».

Proprio sulla sua definizione di società di classe planetaria si sofferma Marc Augé all’interno dell’intervista realizzata in occasione del ciclo di incontri che si tiene a Napoli in questi giorni, I comandamenti per il XXI secolo. In una realtà globale in cui la scienza progredisce ad un ritmo mai conosciuto prima d'ora e in cui, contemporaneamente, la struttura sociale, pur essendo in movimento, resta ancorata ad un modello vecchio, si crea necessariamente uno scarto ed una polarizzazione tra conoscenza, da una parte, e potere economico, dall'altra. La società di classe planetaria, unica direzione verso la quale sembriamo muoverci come umanità (una umanità, per inciso, sempre più spaventosamente numerosa), presenta le arcaiche strutture della divisione in gerarchie rigide: da una parte ci sono i pochi che detengono sapere e ricchezza, dal lato opposto ci sono gli esclusi da conoscenza e fortuna, nel mezzo ci sono i consumatori, necessari al funzionamento del sistema e perennemente braccati dalla paura di scivolare nella classe degli esclusi.

In questa prospettiva, le incertezze dell'avvenire sociale e politico, in un Pianeta che si sente sempre più piccolo ma comunque non solidale, diventano la ragione di un futuro che, ormai, è definitivamente scomparso dall'orizzonte, seppellito sotto le angosce del presente: e sebbene «il futuro sia sempre stato un po' problematico» in questa congiuntura ha perso anche il suo valore di miraggio di illusioni e portatore di speranza. Eppure c'è una strada da indicare, o forse un'utopia: è «l'utopia dell'educazione». La possibilità che i mutamenti scientifici e demografici che sta vivendo l'umanità vengano accompagnati da un'educazione (come mai accaduto fino ad ora) che consenta agli individui di accedere alla conoscenza e, quindi, alla possibilità di relazionarsi con «l'altro». Perché l'individuo non può esistere se privato dell'alterità che dà senso alla sua stessa esistenza, in un legame indissolubile. Solo attraverso il dominio della conoscenza, sostituito al dominio dell'economia che crea disuguaglianze generando violenza e conflitti, il futuro potrà essere restituito a colui il quale ne ha fatto, da sempre, un mezzo per riportare la speranza: l'uomo.

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