Clima, habitat ed esseri umani: tutti “in combutta” per eliminare il mammut
Un dibattito, quello relativo all'estinzione del mammut, che è rimasto sempre aperto nella comunità scientifica. Diverse le circostanze che avrebbero potuto concorrere a cancellare il bestione zannuto dalla faccia della Terra: volta per volta sono stati chiamati in causa i mutamenti climatici ed ecologici che caratterizzarono la fine del pleistocene e l'inizio dell'olocene o, addirittura, impatti di oggetti celesti o epidemie distruttive, fino al fattore "uomo" che, per quanto non determinante in assoluto, potrebbe aver avuto degli influssi importanti, dal momento che la caccia ai giganti era un uso diffuso presso i nostri progenitori.
Un declino graduale, da 45 000 anni fa fino alla definitiva scomparsa – La tendenza generale è quella di propendere per una combinazione tra le ipotesi più probabili, immaginando uno scenario in cui i pachidermi, già decimati a causa del passaggio dall'Ultimo Massimo Glaciale (25 – 20 000 anni fa) alle temperature gradualmente più miti che avrebbe conosciuto l'Olocene (il cui inizio si fa risalire a 11 700 anni fa), avrebbero assistito impotenti alla propria fine giunta circa 4 000 anni addietro, favorita dall'attività venatoria degli esseri umani. L'ultimo studio sull'argomento, curato da un gruppo di ricercatori guidato da Glen Mac Donald del Departments of Geography and Ecology and Evolutionary Biology della UCLA, ha delineato i diversi modelli spazio-temporali relativi alla presenza del mammut a partire da 40 000 anni fa, basati su reperti rinvenuti nel corso degli scorsi decenni: esami al radiocarbonio per i resti ossei appartenenti a 1 323 pachidermi, 658 torbiere, 477 macro-fossili di alberi e foreste, elementi relativi a 576 siti del paleolitico e il ricorso a dati geografici e genetici. Obiettivo del lavoro, i cui risultati pubblicati da Nature Communications, comprendere i meccanismi e i dettagli dell'estinzione del mammut lanoso (Mammuthus Primigenius) dal territorio della Beringia, ponte di terre emerse che univa l'Alaska alla Siberia durante diversi periodi delle ere glaciali e che servì alle migrazioni di tribù asiatiche verso il continente americano: ambiente in cui vissero e prosperarono i grossi mammiferi.
Un insieme di concause – Prima importante constatazione degli studiosi è stata l'abbondanza dei pachidermi tra 45 000 e 30 000 anni fa a cui fece seguito un declino delle popolazioni nordiche nel corso dell'Ultimo Massimo Glaciale a favore di un incremento di quelle delle aree interne della Siberia; il colpo definitivo sarebbe stato assestato dalla Younger Dryas, la breve glaciazione verificatasi tra i 12 900 e 11 500 anni fa che portò all'estinzione di buona parte della megafauna (di cui esempio più celebre fu il mastodonte) e che potrebbe esser stata causata da un corpo celeste schiantatosi sulla Terra, secondo una teoria avvalorata dal recente ritrovamento di un particolare tipo di sedimenti sul fondo del lago Cuitzeo, nel Messico Centrale. I mammut che erano rimasti in territorio continentale si sarebbero dunque trovati ad affrontare, con l'inizio dell'Olocene, diverse circostanze assai sfavorevoli: la precedente contrazione nel numero degli esemplari, con conseguente diminuzione della variabilità genetica; l'innalzamento delle temperature a cui seguì la presenza di una umida tundra e di estese torbiere e lo svilupparsi di ampie foreste di conifere e betulle lungo i margini nord-occidentali del continente euroasiatico, un mutamento nell'ecosistema a cui la popolazione già provata dei mammut lanosi non seppe rispondere positivamente. Infine l'aumento di concentrazione dell'uomo in quegli stessi territori che, un tempo, erano stati dominio incontrastato del Mammuthus Primigenius a cui non restò altro da fare se non ritirarsi a vivere i suoi ultimi secoli sull'isola artica di Wrangel, dove sopravvisse fino a circa 3 500 anni addietro.