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Covid 19

Chi si informa sui social crede di più alle cospirazioni e infrange più restrizioni sul coronavirus

Un team di ricerca del Kings College di Londra ha dimostrato che le persone che si informano sul coronavirus SARS-CoV-2 sui social network (come YouTube o Facebook) sono più propense a infrangere le misure per contrastare la pandemia e a credere ai complotti, come la creazione del patogeno in laboratorio o un ruolo delle antenne 5G.
A cura di Andrea Centini
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Credit: Coronavirus - Rocky Mountains Laboratories (RML) / The National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID)/ Smartphone - Tero Vesalainen
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Chi usa i social network per informarsi sul coronavirus SARS-CoV-2 non solo è più propenso ad appoggiare teorie delle cospirazione sulla pandemia, ma anche a infrangere le norme comportamentali messe in campo dalle autorità per spezzare la catena dei contagi, in particolar modo il distanziamento sociale. I social network non moderati, dunque, se usati come mezzo di informazione possono rappresentare un rischio per la salute (propria e degli altri) a causa della diffusione di contenuti “complottisti” o comunque errati in grado di influenzare le persone suscettibili.

A dimostrare che piattaforme social possono rappresentare un rischio è stato un team di ricerca del Kings College di Londra, che tra il 20 e il 22 maggio scorso ha intervistato oltre 2.200 britannici (con un'età compresa tra i 16 e i 75 anni) sulla pandemia di coronavirus. In Gran Bretagna, sulla base della mappa interattiva messa a punto dagli scienziati americani dell'Università Johns Hopkins, nel momento in cui stiamo scrivendo le persone ufficialmente contagiate dal coronavirus sono circa 303mila, mentre le vittime sono 42.546. Ciò rende il Regno Unito uno dei Paesi più colpiti in assoluto in Europa (in Italia i contagiati sono 238mila, mentre i deceduti 34.561).

Gli scienziati coordinati dal professor Daniel Allington hanno messo a punto un questionario con sette affermazioni sul coronavirus, e hanno chiesto ai partecipanti se le ritenessero vere o false. La prima è un “classico” sin dalla fine dello scorso anno, quando furono individuati i primi casi di una “misteriosa polmonite” nella città di Wuhan, epicentro da cui la pandemia si è diffusa nel resto del mondo. È stato infatti chiesto ai partecipanti se ritenessero che il coronavirus SARS-CoV-2 fosse stato creato in laboratorio: ben il 30 percento ha detto di sì, contro il 41 percento di chi non ci crede e il 29 percento dei dubbiosi. Nella seconda affermazione è stato chiesto se si credesse che il numero delle vittime ufficiali del coronavirus fosse stato deliberatamente ridotto o nascosto dalle autorità; anche in questo caso il 30 percento ha detto di crederlo, contro il 44 percento di chi non ci crede e il 26 percento di che è in dubbio. Per quanto concerne la terza affermazione, ben il 28 percento degli intervistati crede che la maggior parte dei britannici abbia avuto il coronavirus senza rendersene conto, contro il 38 percento di chi non ci crede (le autorità stimano soltanto lo 0,06 percento di infettati nel Regno Unito). Il 14 percento degli intervistati crede inoltre che il numero di vittime sia stato deliberatamente esagerato dalle autorità, contro il 69 percento dei contrari; il 13 percento crede che l'attuale pandemia sia un complotto globale per far vaccinare tutte le persone (il 70 percento non ci crede), mentre l'8 percento crede che la diffusione del coronavirus possa essere legata in qualche modo alle antenne 5G (contro il 79 percento di chi non ci crede). Il 7 percento, infine, crede addirittura che non ci siano prove sufficienti per dimostrare l'esistenza del coronavirus, contro l'82 percento che crede il contrario.

I dati dello studio britannico si sono fatti ancor più sibillini, quando il team guidato dal professor Allington, docente presso il dipartimento “Digital Humanities”, ha verificato quali fossero le fonti da cui gli intervistati prendevano le informazioni sul coronavirus. Ben il 60 percento di chi credeva nel legame tra coronavirus e antenne 5G (diverse delle quali date alle fiamme proprio nel Regno Unito) ha dichiarato di aver preso le informazioni su YouTube, mentre il 56 percento di chi non crede che vi sono prove concrete sulla pandemia ha detto di essersi informato su Facebook. Proprio le persone che raccoglievano le informazioni sui social network erano quelle più propense a infrangere le norme messe in campo per contrastare la pandemia. Il 58 percento delle persone che hanno ammesso di essere uscite di casa nonostante sintomi ascrivibili alla COVID-19 (l'infezione causata dal coronavirus) ha confermato che utilizzava YouTube come fonte primaria di informazione, contro il 16 percento di chi non è uscito con sintomi. Il 35 percento di chi non crede che vi siano prove del coronavirus è uscito di casa quando avrebbe dovuto restare in quarantena (con il 4 percento di chi la pensa diversamente), e ben il 38 percento è andato a trovare amici e parenti pur non potendo, contro il 12 percento di chi crede nell'esistenza del virus. Il 45 percento di coloro che credono che i decessi per COVID-19 sono stati “esagerati”, infine, si documenta molto più su Facebook, rispetto al 19 percento di chi non ci crede.

Gli autori dello studio sottolineano di non essere affatto sorpresi dai risultati della propria indagine, dato che “gran parte delle informazioni sui social media sono fuorvianti o decisamente sbagliate”, hanno scritto in un comunicato stampa pubblicato dal Kings College di Londra. Poiché i governi stanno allentando le misure dopo mesi di lockdown, il professor Allington e colleghi sottolineano che adesso più che mai è di fondamentale importanza informarsi correttamente sul coronavirus e sulle norme da rispettare per evitare una recrudescenza dei contagi, e dunque di fare sempre affidamento a fonti certificate. I dettagli della ricerca “Health-protective behaviour, social media usage and conspiracy belief during the COVID-19 public health emergency” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica specializzata Psychological Medicine e sul portale del King College di Londra.

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