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Cavalli a pois, dipinti realistici nelle grotte del paleolitico

I celebri cavalli a pois della “Grotte du Pech Merle” non sono il mero frutto della fantasia di un artista del paleolitico come si credeva, bensì ritraggono esemplari realmente visti in natura da quell’antico pittore.
A cura di Nadia Vitali
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I celebri cavalli a pois della "Grotte du Pech Merle" non sono il mero frutto della fantasia di un artista del paleolitico come si credeva, bensì ritraggono esemplari realmente visti in natura da quell'antico pittore.


Da anni gli studiosi si pongono interrogativi relativi a quella meraviglia misteriosa che sono le pitture murali; fregi di altissimo valore artistico che ricoprono, per metri e metri, pareti di grotte e caverne, antri oscuri in cui ignote mani paleolitiche hanno tracciato profili di animali o lasciato le proprie impronte, consegnando tutto ad una posterità a cui spetta l'affascinante compito di comprendere cosa spinse quegli uomini antichi ad iniziare a produrre dell'arte vera e propria.

Le pitture parietali ritraenti animali sono collocate, per lo più, nelle profondità di spelonche o in cave inaccessibili: questo ha sempre fatto pensare che non potessero essere la semplice e spontanea manifestazione di una volontà di creare secondo i parametri estetici del tempo. Più spesso si è individuato in quei magnifici affreschi, in cui sfilano tori, bisonti, mammut e cavalli in un'atmosfera rarefatta da cui sono escluse rappresentazioni di vegetazione di qualsiasi tipo, il risultato di un rituale di magia utile a propiziare la caccia: ottenuti con impasti di terre, grasso e sangue animale questi disegni dovevano garantire all'uomo il successo dell'attività venatoria così come le statuette con vulve e seni rigonfi erano un chiaro richiamo alla fertilità che si auspicava.

I celebri cavalli a pois della Grotte du Pech Merle non sono il mero frutto della fantasia di un artista del paleolitico come si credeva, bensì ritraggono esemplari realmente visti in natura da quell'antico pittore.

Teoria affascinante che, tuttavia, non spiega del tutto la presenza di alcune specie il cui valore era più che altro simbolico e l'assenza delle bestie che erano, in realtà, le prede preferite dai cacciatori del tempo quali, ad esempio, le renne: per questo motivo c'è chi ha ipotizzato che quelle forme d'arte fossero la testimonianza di un primitivo rapporto con la divinità che, naturalmente, al tempo non poteva che essere percepita e, dunque, rappresentata che sotto forma di animale. Un omaggio fatto agli dei del tempo, per non inimicarseli e, dunque, assicurarsi sopravvivenza e prosperità.

Insomma, numerose interpretazioni ed un dibattito rimasto sempre aperto perché, in fondo, ogni grotta ha la propria storia, avvolta dalle nebbie del tempo. Come la Grotte du Pech Merle nella regione francese chiamata Midi-Pirenei: le sue pareti sono decorate con le immagini di singolari cavalli a pois (foto) che si è sempre creduto fossero il frutto della fantasia di un artista dell'epoca. La recente scoperta pubblicata dalla rivista PNAS dell'Accademia delle Scienze degli Stati Uniti ha invece chiarito, dopo aver analizzato il materiale genetico di 31 equini fossili provenienti da varie zone della Siberia, dell'Europa Orientale ed Occidentale e della penisola Iberica, che si trattava di una raffigurazione realistica.

I risultati degli studi condotti fino ad ora avevano sempre posto in evidenza che i cavalli del paleolitico erano tutti neri e bai, mentre la ricerca guidata da Melanie Pruvost ha individuato in sei degli esemplari fossili la mutazione genetica associata al mantello bianco con macchie nere; concludendo così che, qualunque sia la ragione imperscrutabile che spinse il pittore del paleolitico a ritrarre proprio quei magnifici cavalli, egli lo fece dopo averli visti correre nelle campagne incontaminate di migliaia di anni fa.

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