Campi Flegrei, il sondaggio che non s’ha da fare
Agli antichi erano ben note le caratteristiche dei Campi Flegrei, al punto che furono essi stessi a battezzarli così, in onore della loro natura "ardente". Un'enorme caldera, considerata ad altissimo rischio, per quanto in uno stato di quiescenza che dura da appena cinquecento anni: l'ultima eruzione, denominata "del Monte Nuovo" si verificò nel 1538 ma seguì ad un periodo "di riposo" di circa tremila anni. L'energia nascosta nel sottosuolo di questa area che abbraccia il Golfo di Pozzuoli e tutti i territori limitrofi è diventata di interesse scientifico nel momento in cui si scoprì il potere della geotermia: un interesse non nuovo ma che è tornato alla ribalta negli ultimi anni, da quando è sorto il Campi Flegrei Deep Drilling Project con l'obiettivo di eseguire delle trivellazioni attraverso un pozzo pilota della profondità di 500 metri nell'area di Bagnoli, periferia occidentale di Napoli, a cui far seguire, nell'eventualità di un riscontro positivo, un più profondo sondaggio di circa 4 chilometri.
Il potere della terra
Negli anni '70 una joint venture Agip – Enel diede inizio alle prime trivellazioni tra le terre ardenti: vennero realizzati undici sondaggi, con pozzi che si spinsero nel suolo fino a 3.2 chilometri, nei territori di Pozzuoli e Bacoli: come era prevedibile, gli esperti riscontrarono un effettivo potenziale geotermico notevole nei fluidi che ritrovarono in profondità. Piuttosto problematiche, però, si rivelarono le caratteristiche dei fluidi, periodicamente in ebollizione: l'elevatissimo grado di salinità li rendeva praticamente inutilizzabili nell'ambito di strutture ed impianti che avrebbero dovuto subire una manutenzione e sostituzione continua a causa della corrosività dei materiali. I tempi della tecnologia, insomma, non erano ancora maturi perché la fonte energetica costituisse un'alternativa economicamente valida: oggi quel potere è noto e necessita solo dei più moderni strumenti per essere sfruttati, certamente non di un'apposita ricerca geotermica che lo vada a "svelare" dalle viscere della terra flegrea. Oltretutto uno dei pozzi venne "cementato" frettolosamente, una volta rivelata la presenza di fluidi supercritici che, secondo i tecnici, esponeva ad un elevato rischio di esplosione.
In un territorio densamente popolato quale è l'area ovest di Napoli, dunque, nascono spontanee numerose perplessità, sia nella popolazione direttamente interessata e relativamente informata da parte del Comune su quanto avviene oltre quelle sbarre che un tempo delimitavano l'area Italsider, sia in una parte del mondo accademico seriamente preoccupata per le conseguenze di un'attività di perforazione le cui conseguenze non sono totalmente prevedibili: per le circa 300 000 persone che vivono non solo nel quartiere di Bagnoli andrebbe invocato il legittimo principio di precauzione, dinanzi al quale la scienza ammette la (pur remota) eventualità che possa verificarsi qualcosa di pericoloso in prossimità di aree urbane. Il che non sarebbe cedere ad allarmismi e "ostacolare la ricerca" dal momento che ciò che bisognava conoscere sul potenziale del sottosuolo flegreo è già noto da tempo, ma semplicemente evitare quelle rassicurazioni ottimistiche che hanno portato alla sbarra la Commissione Grandi Rischi per il terremoto de L'Aquila: se è vero, anzi sacrosanto, che prevedere i terremoti è impossibile (forse solo per il momento, si spera), altrettanto lo è affermare con certezza che il rischio non sussiste, soprattutto in un'area densamente abitata, anche alla luce di incidenti verificatisi in altre aree del Pianeta che già hanno allertato sulla possibilità che la mano dell'uomo troppo in profondità generi delle reazioni nella natura. E soprattutto in un luogo rispetto al quale non esiste a tutt'oggi alcun piano preventivo per l'evacuazione: i rischi vanno sempre calcolati, tutti.
La terra sventurata
C'era una volta, in un tempo molto lontano, una striscia di terra che si allungava al di sotto delle pendici della collina di Posillipo: Bagnoli, affacciata sul mare, dove, nei secoli trascorsi, si andava a godere delle acque termali. Poi arrivò il secolo della tecnologia e del progresso e, a partire dall'inizio del ‘900, quel luogo di vacanza divenne la sede degli stabilimenti Ilva per la produzione dell'acciaio: poi, destino comune a tante altre realtà industriali italiane, le fabbriche vennero dismesse e tutto quello che restò a Bagnoli fu la muta spianata delle vestigia di un tramontato passato industriale, accompagnata dal peso dell'inquinamento ambientale (e della disoccupazione). La bonifica resasi necessaria, e attualmente in corso d'opera, preannuncia la costituzione di una vasta area pubblica in cui troveranno posto un parco di circa 120 ettari e tutti gli strumenti volti a valorizzare la vocazione turistica e culturale della zona: è il progetto Bagnoli Futura che dovrebbe restituire dignità e vivibilità ad un quartiere che ha subito la triste sorte dell'abbandono dopo lo sfruttamento, in perfetto stile neo-colonialista. Come conciliare, dunque, questa grande opera alla finalità prettamente industriale, ancor prima che di ricerca, insita nell'attività di trivellazione? Quale giustificazione dare, in questa ottica, ai fondi già impiegati e che dovrebbero continuare ad essere convogliati in un enorme progetto di risanamento, che prevederebbe anche un'ambiziosa ricostituzione del profilo morfologico della costa originaria, a cui il territorio avrebbe assolutamente diritto assieme a tutti i suoi abitanti?