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Cala la trasmissibilità della variante Delta: dai dati UK ora risulta simile a quella dell’Alfa

La maggiore trasmissibilità della variante Delta, ipotizzata fino al 60 percento superiore rispetto a quella degli altri lignaggi circolanti del coronavirus, è stata fino ad oggi considerata una delle “armi” più preoccupanti del ceppo scoperto in India. Nell’ultimo bollettino della PHE, tuttavia, il suo tasso di attacco secondario è calato a tal punto da risultare di poco superiore a quello della variante Alfa. Ciò significa che presentano una contagiosità simile.
A cura di Andrea Centini
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Tra le quattro varianti di preoccupazione (VOC) del coronavirus SARS-CoV-2 in circolazione, ovvero la Alfa (ex inglese B.1.1.7), la Beta (ex sudafricana B.1.351), la Gamma (ex brasiliana P.1), e la Delta (ex seconda indiana B.1.617.2), quest'ultima è quella considerata attualmente più minacciosa da esperti e istituzioni. Divenuta dominante nel Regno Unito a maggio, ha rapidamente conquistato tale posizione anche a Lisbona e in altre aree della Penisola Iberica, soppiantando la variante Alfa (motore della seconda ondata dello scorso inverno) e gli altri lignaggi circolanti. Secondo gli scienziati, anche a causa di mutazioni di fuga immunitaria che la rendono più resistente agli anticorpi neutralizzanti di vaccini e infezioni pregresse, diventerà la più diffusa in Europa e negli Stati Uniti entro l'estate. L'ascesa sarebbe principalmente legata a una trasmissibilità sensibilmente superiore rispetto a quella degli altri ceppi circolanti, fino al 60 percento maggiore secondo recenti analisi. Questo calcolo, tuttavia, non è stato ancora suffragato dall'evidenza scientifica e potrebbe nascondere una sorpresa: la contagiosità della variante Delta, infatti, ora sembra essere molto più vicina a quella della variante Alfa.

A far notare questa imprevista “somiglianza” su Twitter è il professor Eric Topol, cardiologo, docente di medicina molecolare, fondatore e direttore dello Scripps Research Translational Institute di La Jolla, in California. L'illustre scienziato è da tempo impegnato nell'analisi dei dati epidemiologici relativi alla pandemia di COVID-19, che divulga con “cinguettii” sibillini piuttosto significativi, come l'ultimo a commento del Technical briefing 18 “SARS-CoV-2 variants of concern and variants under investigation in England” appena pubblicato dalla Public Health England (PHE). Nel documento in PDF sono presenti diverse tabelle in cui si fa riferimento al tasso d'attacco secondario delle diverse varianti: questo valore, col passare delle settimane, è “precipitato” per la variante Delta e ora non è così distante da quello della variante Alfa. Per i contatti domestici e non familiari, infatti, esso si attesta rispettivamente al 10,2 e al 5,6 percento per la variante Alfa e al 10,9 e al 5,7 percento per la variante Delta. Non sono esattamente sovrapponibili, ma quasi. Come spiegato dal professor Topol, il tasso di attacco secondario è un indicatore della trasmissibilità del patogeno. Il nuovo dato suggerisce che al momento, nel Regno Unito, non vi è una differenza così netta tra la contagiosità delle due varianti e che dunque il 60 percento evidenziato dalle precedenti analisi sarebbe un'esagerazione.

Tasso d'attacco secondario della variante Alfa. Credit: PHE
Tasso d'attacco secondario della variante Alfa. Credit: PHE
Tasso d'attacco secondario della variante Delta. Credit: PHE
Tasso d'attacco secondario della variante Delta. Credit: PHE

Ma cos'è esattamente il tasso d'attacco secondario? Come spiegato dagli esperti, si tratta di un peculiare caso di incidenza che si applica esclusivamente alle malattie trasmissibili, come appunto lo è la COVID-19. In parole semplici, “si tratta della proporzione dei casi (detti casi secondari) che si sviluppano per contatto con uno o più casi primari entro un tempo corrispondente al periodo di incubazione della malattia”, come spiegato sul quadernodiepidemiologia del professor Ezio Bottarelli. Il periodo di incubazione è l'intervallo di tempo che intercorre tra l'esposizione al patogeno e l'emersione dei primi sintomi, che per la COVID-19 è compreso tra 2 e 14 giorni. Alla luce delle sue caratteristiche, il tasso di attacco secondario rappresenta dunque “una buona misura della contagiosità della malattia nelle circostanze in questione, ossia della sua capacità di trasmettersi da un ospite all'altro”. Riassumendo, avendo la variante Delta un tasso d'attacco secondario leggermente superiore rispetto alla variante Alfa, gli epidemiologi non si aspettano una contagiosità sensibilmente superiore.

La sua attuale prevalenza nei campioni, dunque, sarebbe da ricercare (anche) in altre caratteristiche e negli effetti delle riaperture, che stanno sicuramente giocando a suo favore. Il dato più significativo degli ultimi bollettini della PHE resta comunque quello che al costante aumento dei contagi non sta seguendo un aumento dei ricoveri in ospedale e nei decessi, questo perché la doppia dose di vaccino offre una protezione elevatissima contro le complicazioni e l'esito infausto della COVID-19. Per questa ragione gli esperti britannici raccomandano ancora a tutte le persone idonee di farsi vaccinare quanto prima, continuando a rispettare il distanziamento, l'uso delle mascherine laddove richiesto e il lavaggio delle mani.

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