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Bombe atomiche sulla Luna: gli USA facevano sul serio?

In un’intervista, il fisico Leonard Reiffel rivela particolari su un programma segreto americano per far esplodere testate nucleari sulla Luna. Coinvolto anche Carl Sagan.
A cura di Roberto Paura
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Gli Stati Uniti avevano intenzione di far detonare delle testate nucleari sulla Luna. È quanto rivelava il fisico Leonardo Reiffel in un’intervista concessa dodici anni fa all’American Press e ripresa ora dal Daily Mail. Il tema torna a sollevare polemiche a grande distanza da quegli anni di piena Guerra fredda: si era nella seconda metà degli anni ’50 e l’U.S. Air Force avrebbe affidato a Reiffel e al suo più giovane collega Carl Sagan – divenuto poi celeberrimo come divulgatore scientifico – un progetto con il nome in codice “A119” per studiare la fattibilità di condurre test atomici sulla superficie del nostro satellite naturale. La data prevista per il primo test sarebbe stata il 1959. Poi, una fuga di notizie provocata da Sagan, che avrebbe parlato del progetto nella sua domanda per una borsa di studio, fece saltare i programmi dell’esercito americano. Ma cosa c’è di vero?

Studi scientifici, obiettivi militari

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Di vero c’è innanzitutto un documento datato 19 giugno 1959 e intitolato “A Study of Lunar Research Flights” scritto proprio da Leonard Reiffel per l’Air Force Special Weapons Center, il centro di ricerche dell’esercito sulle armi non convenzionali. A quei tempi, Reiffel lavorava per l’Illinois Institute of Technology, dov’era vicepresidente. Il report, va detto, era “unclassified”, quindi non classificato e accessibile in teoria a tutti gli interessati. Si trattava infatti di uno studio di tipo scientifico, come si legge nell’abstract: “Detonazioni nucleari in prossimità della Luna sono considerate in questo report insieme alle informazioni scientifiche che potrebbero essere ottenute da tali esplosioni”. Cosa si voleva scoprire? È noto che, per analizzare l’interno della Terra, gli scienziati usano le onde sismiche prodotte dai terremoti naturali e, talvolta, quando si effettuavano test nucleari sotterranei, dalle esplosioni atomiche. Una cosa del genere, ragionavano i fisici, sarebbe stata impiegabile sulla Luna. Prima che gli astronauti delle missioni Apollo potessero installarvi sulla superficie dei sismografi, l’unica soluzione per studiare l’interno del nostro satellite naturale sarebbe stata appunto far detonare delle bombe atomiche su di esso.

Ma nello studio non si tralasciava l’aspetto militare. Dopo tutto, far denotare una bomba sulla Luna o nella sua orbita sarebbe stata una significativa dimostrazione di forza, un avvertimento per l’Unione sovietica. L’anno è importante: siamo nel 1959 e due anni prima i sovietici hanno lanciato il loro primo satellite artificiale, lo Sputnik, battendo sul tempo gli americani. Il cosiddetto “effetto Sputnik” si traduce per gli USA in una profonda preoccupazione per le conseguenze della nuova capacità spaziale sovietica. Come una sorta di moderna spada di Damocle, lo Sputnik che passa continuamente sulle loro teste ricorda agli americani che l’URSS ora potrebbe colpire il territorio degli Stati Uniti in qualsiasi momento. La reazione del governo fu una forte accelerazione nello sviluppo del proprio programma spaziale, missilistico e nucleare. E quale risposta migliore ai sovietici che la detonazione di un ordigno nucleare sulla Luna? Ai tempi della Guerra fredda e della corsa allo spazio, una simile riflessione non stonava affatto.

Giochi (nucleari) proibiti

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Perché allora il progetto non fu realizzato? Secondo Richard Rhodes, tra i principali studiosi di politiche nucleari oggi a Stanford, premio Pulitzer per il suo monumentale libro L’invenzione della bomba atomica, nel 1959 gli Stati Uniti non avrebbero avuto ancora le capacità tecnologiche per lanciare una testata atomica sulla Luna. È vero che quell’anno gli americani si erano dotati dei missili balistici intercontinentali, e avevano ormai la capacità di raggiungere l’orbita terrestre, ma non esistevano ancora lanciatori in grado di raggiungere l’orbita lunare. Questa capacità, infatti, sarebbe stata sviluppata solo nella metà degli anni ’60. Probabilmente l’U.S. Air Force doveva averlo capito.

Provarci allora sarebbe stato un rischio terribile: se il missile non fosse riuscito a raggiungere la velocità di fuga, sarebbe ricaduto sulla Terra, mettendo a serio rischio l’incolumità di cittadini americani. Qualche scienziato, inoltre, avrebbe sollevato le proprie perplessità sul rischio di rendere la Luna radioattiva. Forse lo stesso Carl Sagan, allora un semplice studente di dottorato, che aiutò Reiffel a fare i calcoli e poi, con apparente ingenuità, rivelò tutto. La strenua opposizione di Sagan al programma nucleare americano sarebbe divenuta nota in seguito. Sagan fu l’autore di uno studio cruciale sul cosiddetto “inverno nucleare” – lo scenario in cui, in seguito a una guerra atomica, le polveri proiettate in atmosfera dalle esplosioni avrebbero provocato un gelido inverno della durata di anni, uccidendo miliardi di persone – che ebbe un ruolo chiave nell’impedire che la Guerra fredda si tramutasse in un conflitto atomico.

Ma per dare un’idea dei tempi, basti ricordare che il padre della bomba H, il fisico Edward Teller, all’epoca proponeva di usare gli ordigni nucleari per opere di ingegneria civile, come scavare porti e canali artificiali o spianare montagne. In un convegno a Livermore, nel febbraio 1957, come ricostruisce Peter Goodchild nella biografia di Teller, Il vero dottor Stranamore, egli pronunciò queste testuali parole: “Probabilmente, non si resisterà a lungo alla tentazione di sparare contro la Luna per osservare quale tipo di perturbazione potrebbe provocare”. E se a parlare era uno dei più eminenti – e bellicosi – scienziati di Los Alamos, l’idea non doveva poi essere così fantasiosa.

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