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La responsabilità della scienza è una prova di maturità

La traccia del saggio breve di ambito tecnico-scientifico nell’esame di maturità 2012 ha suggerito ai candidati il complesso tema della responsabilità nella scienza.
A cura di Roberto Paura
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Non è chiaro quando esattamente l’umanità ha smesso di fidarsi ciecamente della scienza. Lo faceva certamente in pieno Ottocento, nell’epoca chiamata “positivismo”, in cui si credeva che tutti i problemi del mondo sarebbero stati risolti dal progresso scientifico e tecnologico, che tutti i misteri sarebbero stati ricondotti sotto il rischiarante lume della ragione. Molto probabilmente, questo rapporto di cieca fiducia venne meno l’8 agosto 1945, quando Hiroshima fu rasa al suolo dal sole artificiale realizzato dagli scienziati atomici. Ma molti decenni prima, Mary Shelley aveva pubblicato Frankenstein dimostrando i pericoli che sarebbero potuti derivare dalla paventata sostituzione di Dio da parte dell’Uomo.

Oggi la paura della scienza è un argomento di grande attualità. Moltissimi, soprattutto tra i più giovani, non si fidano della scienza, intesa – quest’ultima – nel suo senso più ampio. La medicina, per esempio: si dimentica che la ricerca ci ha permesso di estendere la speranza di vita di molti anni nell’ultimo secolo, debellando tantissime malattie, e si sottolinea solo l’incapacità della scienza “ufficiale” (come se ne esistesse una “non-ufficiale”) di non riuscire a sconfiggere il cancro. Si guarda con sospetto alla biotecnologia, e naturalmente al nucleare. La traccia proposta quest’anno all’esame di maturità dai tecnici del Ministero dell’Istruzione nell’ambito tecnico-scientifico verteva proprio sulla responsabilità della scienza e, non a caso, ha battuto il tasto soprattutto sulla questione del nucleare.

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Naturalmente, in un paese imbevuto di cultura umanistica come l’Italia, i brani scelti provenivano tutti – tranne uno, quello di Margherita Hack – da non scienziati: da Primo Levi, l’unico grande nome della letteratura italiana che ha dato un po’ di spazio alla cultura scientifica; Leonardo Sciascia, che nei suoi scritti si era occupato del caso della scomparsa di Ettore Majorana; Pietro Greco, uno dei più capaci giornalisti scientifici in Italia; e il filosofo Hans Jonas. Forse è anche giusto così: gli scienziati difficilmente riescono a comprendere immediatamente le eventuali ricadute negative delle loro ricerche.

La più spaventosa tra le invenzioni dell'umanità

L’esempio dell’energia nucleare non è assolutamente campato per aria. Chi ha letto le memorie degli scienziati atomici degli anni di Los Alamos – Oppenheimer, Szilard, Teller – scoprirà che erano perfettamente a conoscenza della possibilità che le loro ricerche portassero alla realizzazione della più spaventosa arma mai concepita dall’umanità. Non ci volle molto perché superassero i loro dubbi e decidessero addirittura di convincere il governo americano a sovvenzionare con miliardi di dollari quello che divenne noto come Progetto Manhattan. E non è vero che lo fecero solo perché temevano che Hitler arrivasse alla bomba prima di loro. Semplicemente, da buoni scienziati, volevano veder realizzata la loro idea. E questa verità diventerà ancora più evidente negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale.

hiroshima

Dopo i tragici “esempi dimostrativi” di Hiroshima e Nagasaki, gli scienziati di Los Alamos sapevano perfettamente cosa potevano realizzare le loro bombe. Eppure, dopo aver nuovamente messo da parte i loro dubbi, portarono avanti il progetto di Edward Teller per realizzare un’arma ancora più potente, la bomba all’idrogeno, o bomba H. E la sperimentarono, senza nemmeno sapere esattamente quali sarebbero stati gli effetti del test. È noto infatti che alcuni di loro temevano che l’esplosione fosse addirittura capace di incendiare l’atmosfera terrestre e provocare una vera e propria fine del mondo. Allora forse, suggeriva Sciascia nel suo magistrale lavoro La scomparsa di Ettore Majorana, il grande scienziato italiano decise di scomparire – o di morire, il che fa lo stesso – per evitare di compromettersi con il più terribile e spaventoso progetto della storia della scienza. Emilio Segré, ricorda Majorana, chiamò “provvidenziale” la cecità degli scienziati di via Panisperna (tra cui c’era Fermi, poi emigrato in America, e lo stesso Majorana), che non seppero riconoscere la fissione nucleare quando la realizzarono a Roma per la prima volta nella metà degli anni ’30. Ma per i giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, non fu certo provvidenziale la mancata “cecità” dei fisici americani.

Le parole più sagge sono quelle di Margherita Hack: «Certo è anche vero che la ricerca va per tentativi e di conseguenza non ci si può subito rendere conto dell’eventuale portata negativa; in tal caso bisognerebbe saper rinunciare». E quanti scienziati, oggi, rinuncerebbero a firmare una loro scoperta da Nobel, pur consapevoli dell’eventuale portata negativa di cui parla Hack? Pochi. Forse nessuno. Soprattutto in un’epoca in cui, rispetto a ieri, la ricerca è fortemente guidata dal mercato, considerando anche che lo Stato non è più abbastanza capace di finanziare la ricerca pubblica.

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Gli scienziati scoprono nuovi farmaci retrovirali, o nuovi farmaci antitumorali, ma sono le aziende farmaceutiche a brevettarli, a venderli e a imporre i prezzi; prezzi che spesso impediscono ai paesi in via di sviluppo – i più bisognosi – ad accedere a questo tipo di cure. Un dilemma etico che pone un’ombra pesantissima sulla scienza. Cosa dovrebbe fare oggi uno scienziato, di fronte a questo dilemma? Continuare a lavorare autoassolvendosi in nome del vecchio principio della neutralità della scienza, o abbandonare tutto, compreso un lauto stipendio, con poche prospettive di trovare una nuova nicchia occupazionale, per rispettare l’imperativo morale di Hans Jonas: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra»? Un problema davvero, una volta tanto, da "maturità".

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