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70 anni fa Enrico Fermi apriva l’era atomica

Sotto le gradinate dello stadio di Chicago, il fisico italiano accendeva la prima pila atomica realizzando per la prima volta una reazione di fissione nucleare autosostenuta.
A cura di Roberto Paura
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WWII Manhattan Project Fermi 1942

In quella fredda mattina del 2 dicembre 1942, i cittadini di Chicago erano del tutto ignari del fatto che nello stadio di football ormai abbandonato del campus dell’università si stesse per svolgere un esperimento storico, e anche un po’ pericoloso. Sotto le gradinate dello stadio, infatti, il fisico italiano Enrico Fermi si apprestava a dimostrare la fattibilità di una reazione nucleare autosostenuta, in grado cioè di produrre energia senza rischiare un’esplosione in seguito a una reazione a catena incontrollata. Sarebbe stato il primo reattore nucleare sperimentale, che avrebbe dato il via all’era atomica: da un lato le sue importanti applicazioni civili nello sviluppo di una fonte di energia potente e pulita, ma pericolosa per le scorie radioattive e la delicatezza della reazione nel nocciolo; dall’altro, le sue terribili implicazioni militari che avrebbero permesso agli USA, in meno di tre anni, di sganciare due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

La strada che porta alla bomba

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Quel giorno, comunque, Enrico Fermi non pensava a nessuna di queste implicazioni. La sua maggiore preoccupazione era dimostrare che attraverso l’inserimento di barre di cadmio nella sua pila atomica fosse possibile controllare la reazione a catena senza innescare esplosioni. Il cadmio, infatti, sotto forma di barre di controllo, sarebbe stato in grado di assorbire i neutroni in eccesso della prima fissione nucleare. Solo uno di essi sarebbe andato a colpire un altro atomo di uranio producendo la scissione, e così via in una reazione in cui ogni neutrone risultante va a colpire un altro atomo. Se le barre non avessero funzionato a dovere, se anche un solo neutrone fosse sfuggito al controllo, la reazione sarebbe diventata instabile e lo stadio di Chicago sarebbe potuto esplodere in una prima piccola prova della potenza dell’atomo.

La pila atomica di Fermi mostrava così quanta strada fosse stata fatta dalla scienza dalla prima pila elettrica di Volta. Questa era tutta un’altra roba, molto più potente e complessa. E realizzata a tempi record, solo un paio di anni o poco più dalla scoperta della fissione nucleare. Bisognava far presto: gli scienziati avevano capito che la fissione, oltre a essere una potente forte di energia, poteva essere trasformata in un’arma di potenza inimmaginabile fino ad allora. In Germania ci stavano già lavorando. Bisognava battere Hitler sul tempo e dotare gli Stati Uniti di una propria bomba atomica prima del regime nazista. E in questa corsa contro il tempo, nota con il nome in codice di “progetto Manhattan”, Enrico Fermi stava giocando un ruolo-chiave. Era scappato dall’Italia fascista prima della guerra, dopo che a Roma, all’istituto di fisica di via Panisperna, lui e altri geni come Ettore Majorana, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi e Bruno Pontecorvo, avevano intuito l’importanza delle ricerche nella fisica nucleare e vi si erano gettati con la passione dei giovani.

Il navigatore italiano sbarca nel nuovo mondo

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Nella metà degli anni ’30, la situazione internazionale si era fatta pesante. I ragazzi di via Panisperna si erano in parte dispersi: Ettore Majorana si faceva vedere sempre meno spesso, finché non accettò una cattedra a Napoli e l’anno dopo scomparve nel nulla; Pontecorvo si era trasferito a Parigi per seguire le ricerche sulla radioattività di Joliot-Curie, marito della figlia di Marie Curie, di cui era stato assistente; Emilio Segrè aveva vinto una cattedra a Palermo. Nella metà del 1938 Enrico Fermi seppe in anteprima che per le sue ricerche sui neutroni e la radioattività avrebbe vinto il Premio Nobel. Con tutta la famiglia prese il treno da Roma e non tornò se non dopo la guerra, e per poco tempo: ritirato il premio a Stoccolma, evitando il saluto romano al re di Svezia, s’imbarcò su una nave e giunse a New York, dove alla Columbia University lo aspettavano con ansia. Lì, saputo che in Germania era stata realizzata la prima fissione nucleare, iniziò subito a lavorare sulla possibilità di produrre una reazione a catena.

Poco dopo le tre del pomeriggio di quel 2 dicembre di settant’anni fa, la pila atomica sotto lo stadio di Chicago produsse la prima reazione autosostenuta. Il gruppo di scienziati e funzionari che aveva supervisionato l’esperimento fu soddisfatto e la notizia venne comunicata alla commissione per le ricerche della Difesa in una storica telefonata: “Il navigatore italiano è appena sbarcato nel nuovo mondo”, disse Arthur Compton, già premio Nobel per la fisica. “I nativi erano amichevoli?”, chiese dall’altro capo James Conant, a capo del progetto Manhattan. “Tutti quanti sono sbarcati sani e felici”, fu la risposta. Oggi il sito è monumento nazionale e l’istituto di fisica di Chicago porta il suo nome. Poco lontano da lì, il Fermilab ospita uno dei più importanti acceleratori di particelle del mondo: esplora in profondità i misteri dell’atomo, ma senza più rischi per l’umanità.

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