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HIV, l’80% degli italiani è convinto di non correre il rischio di contrarre il virus

I dati raccolti attraverso un’indagine su campione mostrano un Paese ancora immensamente ignorante in materia di malattie sessualmente trasmissibili.
A cura di Redazione Scienze
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illustrazione del virus HIV
illustrazione del virus HIV

Nel nostro Paese c'è ancora chi crede che l'AIDS sia una malattia che colpisce esclusivamente omosessuali ed eroinomani. Un pregiudizio che, come tutti i pregiudizi, si fonda su ignoranza e disinformazione; e il problema fosse soltanto quello. Il punto è che l'argomento è uno di quelli rispetto ai quali una conoscenza sommaria può creare dei danni gravissimi all'intera società. Qualche giorno fa, uno studio spiegava come il virus si fosse diffuso inizialmente in Congo tra la popolazione a causa del fatto che il pericolo allora non era affatto conosciuto: del resto, essendo l'HIV un virus che porta al collasso del sistema immunitario esponendo a diverse tipologie di infezioni, la scoperta dell'origine del male ha richiesto parecchio tempo. Oggi però non ci sono più scuse se non quella, appunto, del pregiudizio: e il pregiudizio è figlio dell'arretratezza culturale o mentale.

«L'AIDS non mi riguarda»

E così può capitare, leggendo i dati di un'indagine condotta da GFK Eurisco e promossa da Gilead, che qualcuno creda con convinzione di non essere a rischio di contrarre il virus perché non omosessuale né tanto meno eroinomane: a quanto pare, a pensarla così sono 8 italiani su 10. Ed è un numero da temere davvero. Perché questa non-percezione del rischio espone molto di più al pericolo e, troppe volte, tale pericolo si annida all'interno delle stesse coppie. Se, infatti, negli anni in cui l'AIDS finì sotto gli occhi del mondo intero divenendo una vera e propria emergenza globale, effettivamente i dati disponibili evidenziavano una casistica molto più alta tra tossicodipendenti ed omosessuali, oggi le cose sono radicalmente cambiate: il tasso di infezioni attribuili al consumo di droghe per via endovenosa è calato vertiginosamente mentre, tra i quattromila nuovi sieropositivi in Italia all'anno, le percentuali di chi ha contratto il virus attraverso rapporti eterosessuali o omosessuali sono quasi uguali. Ricordiamo che, in base al numero di nuove infezioni annue, l'Italia è considerato un Paese ad incidenza medio-alta. E la scarsa conoscenza è ancora più preoccupante quando si parla di nuove generazioni che, in nove casi su dieci, collegano la sieropositività alla tossicodipendenza: questo perché evidentemente nessuno li informa (né a scuola, né attraverso campagne pubblicitarie ma soprattutto a casa), benché abbiano a disposizione strumenti di conoscenza preziosissimi come il web.

Del resto, siamo la stessa Italia in cui, in occasione della Giornata Mondiale per l'AIDS che ogni anno ricorre il 1° di dicembre, nel 2011 i vertici RAI stabilirono il divieto di pronunciare la parola "preservativo" in televisione, nel corso delle numerose trasmissioni dedicate al tema: quindi di cosa ci stupiamo, in fondo? Certo, se due italiani su tre non affermassero di sentirsi preoccupati e a disagio all'idea i frequentare una persona sieropositiva (con la stessa casistica che crede che il datore di lavoro sia legittimato a richiedere ai propri dipendenti il test) quanto meno dimostreremmo di essere un po' più avanti nello smantellamento di un pregiudizio ormai vecchio. Ma non è così.

Il test dell'HIV è fondamentale per la prevenzione

Stigmatizzazione dell'altro ("l'altro" passibile di contrarre l'HIV che, invece, non ci riguarda da vicino, crediamo), carenza di informazioni e scarsissimo interesse (forse a causa della paura?): ecco come accade, quindi, che in molti diventino sieropositivi senza saperlo (si stima che in Italia dovrebbero essere circa il 15-20% dei nuovi contagiati) andando incontro a due conseguenze disastrose. La prima di esporre i propri partner, a loro volta, al contagio. La seconda è di ritardare il momento di inizio della terapia con farmaci antiretrovirali la quale ha migliorato immensamente la qualità della vita dei pazienti sieropositivi ma, naturalmente, prima la si inizia nell'arco della vita e meglio è. Per cui, meno della metà dei partecipanti all'inchiesta (pari al 46%) non ritiene che il test dell'HIV sia uno strumento fondamentale per la prevenzione e il controllo e appena il 3% vi ha fatto ricorso.

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