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Vermi spaziali alla conquista del cosmo

Nuove ricerche confermano la capacità di resistenza di diversi microrganismi all’esposizione al vuoto cosmico, rendendo diverse specie di “vermi” adatti alla colonizzazione dell’universo.
A cura di Roberto Paura
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Solo alcuni decenni fa, quasi tutti gli scienziati avrebbero concordato sul fatto che nessuna specie vivente può resistere all’esposizione al vuoto dello spazio. Lo spazio, com’è noto, è il più estremo degli ambienti ostili: niente aria per respirare, una temperatura vicina allo zero assoluto, assenza di gravità, esposizione ai devastanti raggi cosmici. Un essere umano senza tuta spaziale morirebbe in pochi secondi. Eppure, qualcosa riesce a sopravvivere in un ambiente tanto inospitale. Già negli anni ’70 l’astronomo Fred Hoyle aveva ipotizzato l’esistenza di batteri capaci di resistere all’esposizione cosmica, arrivando a sostenere la tesi secondo cui la vita si sarebbe potuta diffondere nell’universo attraverso questi tipi di microrganismi, sfruttando il passaggio offerto da asteroidi e comete per sbarcare su altri mondi.

Oggi, nuove ricerche dall’Università di Nottingham e dalla Statale di Milano confermano queste ipotesi. Alcuni microrganismi, comunemente – ma impropriamente – definiti “vermi” per la loro forma allungata, si sono dimostrati capaci di restare in vita anche nello spazio. Ricerche che aprono importanti prospettive di studio sugli effetti che l’ambiente ostile del cosmo produce sugli esseri umani, in vista di future colonie sulla Luna e missioni su Marte, ma che riaprono anche il dibattito sulla panspermia, la possibilità cioè che la vita sia giunta sulla Terra “dal cielo”, grazie ai vermi colonizzatori stivati su meteoriti e comete precipitate sul nostro pianeta.

I vermi dormienti

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Di che vermi parliamo? Principalmente, di tre specie di microrganismi: i rotiferi, i tardigradi e i nematodi. Le loro dimensioni medie sono intorno ai 100 micron, quindi invisibili a occhio nudo. Per studiarli, sono necessari moderni microscopi elettronici. Ma, nonostante le loro dimensioni lillipuziane, questi vermi possiedono una complessità biologica molto simile a quella umana, fatte le dovute comparazioni. Hanno un ciclo di vita molto breve, il che permette agli studiosi di analizzare gli effetti dell’esposizione al vuoto cosmico in più generazioni, per verificare se i discendenti ereditano difetti genetici dai loro progenitori.

La loro principale peculiarità è tuttavia un’altra: la dormienza. Questi vermi sono infatti capaci di entrare in una sorta di letargo, una sospensione di tutte le attività vitali che non ne inficia però la possibilità di riprendere regolarmente il loro consueto metabolismo una volta usciti dal sonno. La dormienza è molto più di un letargo: ricerche condotte all’Università Statale di Milano da Claudia Ricci, docente di zoologia presso il Dipartimento di Biologia, hanno dimostrato che nella fase di dormienza i vermi, apparentemente, non consumano ossigeno. In pratica, non respirano. Ciò consente loro di poter sopravvivere negli spazi siderali senza battere ciglio: il loro sviluppo e il loro metabolismo si rallenta fino ad arrestarsi, e inoltre il loro organismo acquisisce una singolare resistenza a eventuali danni ambientali. La dormienza, in pratica, rende questi vermi quasi invulnerabili. Ma c’è di più: quando escono da questa fase, che assumono in condizioni ambientali estreme, i vermi riprendono la loro vita come se nulla fosse successo. Il loro metabolismo, cioè, riprende a operare esattamente dal punto in cui si era interrotto, cosicché la dormienza può durare teoricamente anche millenni senza avere nessun effetto sulla longevità dei vermi. Per dirla altrimenti, è come se quei giorni, mesi o anni di letargo non fossero mai trascorsi e si risvegliassero con la stessa età di quando si sono addormentati.

Esposizione alla microgravità

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È chiaro che queste proprietà li rendono gli organismi ideali per la sopravvivenza nello spazio cosmico. Per questo sono stati impiegati in un primo fondamentale esperimento, alcuni anni fa, sullo Space Shuttle, mentre l’Agenzia spaziale europea ha da poco approvato un nuovo esperimento che dovrebbe svolgersi sulla Stazione spaziale internazionale. Gli esperimenti hanno verificato gli effetti della microgravità (cioè la gravità nell’orbita terrestre, quasi zero) e delle radiazioni cosmiche sui vermi.

Ebbene, la microgravità non provoca nessun problema ai nostri resistentissimi vermi: mentre gli esseri umani, esposti per sei mesi alla microgravità, vanno incontro a gravi problemi di salute come osteoporosi e debolezza muscolare, necessitando di diversi mesi di allenamento per recuperare il consueto tono fisico una volta ritornati sulla Terra, questi microrganismi non subiscono nessun danno dall’assenza di gravità durante la fase di dormienza e, una volta reidratati e quindi “risvegliati” dal letargo, riprendono le loro consuete attività senza problemi. Certo, ciò dipende dalla loro biologia che in alcuni casi – soprattutto riguardo scheletro e muscolatura – differisce notevolmente da quella umana: per questo, future missioni si incaricheranno di verificare gli effetti della microgravità su altre cavie microscopiche dotate di un idroscheletro. È noto infatti che, nello spazio, gli astronauti riducono spontaneamente il loro metabolismo del 30%. Non è ancora chiaro se ciò sia un effetto indiretto della microgravità che avviene a causa della debolezza ossea e muscolare o se sia piuttosto un effetto diretto, come tale prodotto a prescindere dai danni al sistemi locomotorio.

Gli effetti dei raggi cosmici

La radiazione cosmica, viceversa, sembra danneggiare i vermi allo stesso livello degli esseri umani. I raggi cosmici nello spazio, non filtrati dall’atmosfera e dal campo magnetico di un pianeta, penetrano in profondità nelle cellule, danneggiando anche lo stesso DNA. Una coltura di rotiferi esposta al vuoto spaziale ha subito danni alle gonadi nel 40% degli esemplari. Ciò naturalmente inficia la loro capacità di riproduzione, con il rischio di non poter generare nuovi esemplari. È un effetto noto, che le agenzie spaziali sanno essere tra i principali rischi a cui andrebbe incontro una colonia spaziale o una missione umana verso Marte.

“ Siamo stati in grado di dimostrare che i vermi possono crescere e riprodursi nello spazio per un tempo sufficiente a raggiungere un altro pianeta. ”
Nathaniel Szewczyk
Tuttavia, una ricerca appena pubblicata sulla rivista “Interface” della Royal Society a cura di Nathaniel Szewczyk e del suo gruppo di studio dell’Università di Nottingham sostiene che una particolare specie di vermi nematodi, i Caenorhabditis elegans, sono capaci di mantenere la loro capacità riproduttiva al punto da poter raggiungere altri mondi e da lì, usciti dalla dormienza, riprendere le loro funzioni vitali e la riproduzione. Questi vermi, giunti sulla Stazione spaziale internazionale a bordo dello Shuttle Discovery, sono stati monitorati per sei mesi: un periodo di tempo durante il quale sono nate e cresciute 12 generazioni. I risultati sono incoraggianti: “Siamo stati in grado di dimostrare che i vermi possono crescere e riprodursi nello spazio per un tempo sufficiente a raggiungere un altro pianeta e che si può monitorare a distanza la loro salute. Di conseguenza C. elegans è una soluzione conveniente per scoprire e studiare gli effetti biologici delle missioni nello spazio profondo. In definitiva, ora siamo in condizione di poter far crescere e studiare a distanza un animale su un altro pianeta”.

Si ipotizza in futuro di portare colonie di vermi “spaziali” sulla Luna e su Marte per verificare, in prospettiva, le loro capacità di sopravvivenza e adattamento su altri pianeti – anche se questi studi dovranno scontrarsi con l’ostilità di gran parte della comunità scientifica che non vuole contaminare altri mondi con organismi provenienti dalla Terra, per evitare il rischio che eventuali specie autoctone possano essere distrutte dal contatto con i vermi. Ma gli ultimi esperimenti incoraggiano soprattutto gli esobiologi, da tempo convinti che questi microrganismi possano essere i veri colonizzatori dell’universo: capaci di resistere a lungo all’esposizione cosmica senza subire danni, potrebbero essere sbarcati su numerosi pianeti e lì, in condizioni favorevoli, potrebbero essersi evoluti fino a raggiungere, in alcuni casi, forme di vita complesse. Come gli esseri umani, e chissà chi altri.

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