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Covid 19

Variante genetica rara aumenta il rischio di Covid grave negli uomini giovani

Un team di ricerca italiano guidato da scienziati dell’Università di Siena ha dimostrato che una parte dei casi di COVID-19 grave nei pazienti maschi giovani e sani può essere spiegata dalla presenza di una rara variante genetica. Le mutazioni coinvolte sono strettamente legate a un gene che regola l’interferone, una importante proteina della risposta immunitaria.
A cura di Andrea Centini
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La COVID-19, l'infezione provocata dal coronavirus SARS-CoV-2, nella maggioranza dei casi si manifesta con sintomi lievi o moderati, mentre in una certa percentuale di positivi il contagio è persino asintomatico; tuttavia una piccola ma significativa parte dei pazienti sviluppa una forma talmente grave della malattia da necessitare del ricovero in ospedale. In alcuni casi le conseguenze dell'infezione sono fatali, come mostrano i drammatici bollettini che vengono diramati quotidianamente dall'inizio della pandemia. Del resto, con un numero enorme di contagi diventa significativo anche quello di coloro che finiscono in ospedale e muoiono, ed è proprio per questa ragione che conviviamo con norme anti Covid da oltre un anno. Com'è noto dagli studi epidemiologici, i pazienti contagiati dal SARS-CoV-2 più a rischio sono gli uomini anziani e/con patologie pregresse (comorbilità), ma non mancano casi di persone giovani e in perfetta salute che perdono la vita a causa del virus pandemico. Com'è possibile? Per una parte di essi una spiegazione può essere trovata in una rara mutazione genetica, che è stata identificata in associazione a forme gravi della COVID-19.

A scoprire questo legame tra profilo genetico e rischio di Covid severa negli uomini giovani è stato un team di ricerca italiano guidato da scienziati del Dipartimento di Genetica medica e del Med Biotech Hub and Competence Center – Dipartimento di Biotecnologie Mediche dell'Università di Siena, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi della Divisione Malattie Infettive e Immunologia della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, del Dipartimento di Matematica dell'Università di Pavia, dell'Università di Perugia, dell'Ospedale Maggiore di Crema, dell'Università degli Studi di Brescia e Ospedale ASST Spedali Civili e di altri istituti sparsi per lo Stivale. Gli scienziati, coordinati dalla professoressa Chiara Fallerini, ricercatrice specializzata in Genetica Medica dell'ateneo toscano, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver messo a confronto i profili genetici di 156 pazienti maschi, tutti con COVID-19 e con un'età inferiore a 60 anni. I soggetti coinvolti sono stati selezionati da uno studio multicentrico chiamato GEN-COVID avviato il 16 marzo 2020, all'inizio della prima ondata della pandemia nel nostro Paese.

Le basi della ricerca sono state gettate sulla scorta dei risultati di altri studi, nei quali era stato dimostrato che i geni legati all'interferone giocano un ruolo importante nel regolare la risposta immunitaria contro la COVID-19. Gli interferoni sono proteine prodotte da cellule immunitarie che rispondono all'invasione di agenti patogeni come virus, batteri e funghi. Come spiegato nel comunicato stampa degli atenei coinvolti, l'interferone agisce in sinergia a recettori che identificano il virus e avviano la risposta immunitaria, chiamati recettori Toll-like (TLR). “Quando un recente studio ha identificato rare mutazioni in un gene TLR, TLR7, in giovani uomini con COVID-19 grave, abbiamo voluto indagare se si trattava di una situazione ultra-rara o solo della punta dell'iceberg”, ha dichiarato il coautore dello studio professor Mario Mondelli, docente di Malattie Infettive presso l'Università di Pavia. Gli scienziati sono andati a caccia di queste mutazioni sequenziando tutti i geni sul cromosoma X dei 156 uomini coinvolti.

Dall'analisi condotta, la professoressa Fallerini e i colleghi hanno determinato che il gene TLR7 era uno dei “più importanti legati alla gravità della malattia”. Hanno infatti individuato rare mutazioni missenso – che si verificano quando in una sequenza di DNA viene sostituita una base azotata – in 5 fra 79 uomini giovani (meno di 60 anni) con COVID-19 grave, mentre non ne è stata trovata nessuna nei 77 pazienti che avevano sintomi lievi. La stessa mutazione, si legge nel comunicato stampa, è stata riscontrata in tre uomini con età superiore ai 60 anni, due con COVID-19 grave e uno con pochi sintomi (ma con una mutazione dall'impatto limitato sul gene TLR). Trattando i globuli bianchi di pazienti Covid guariti con un farmaco che attiva i geni TLR, hanno scoperto che la loro attività era ridotta nelle cellule immunitarie dei pazienti con le mutazioni. Inoltre in questi ultimi sono state trovate anche minori concentrazioni di interferone, pertanto gli autori dello studio ritengono che queste rare varianti genetiche possono alterare la risposta immunitaria e aumentare il rischio di COVID-19 grave anche nei pazienti giovani e sani.

Una “prova” di questo rischio è stata trovata mettendo a confronto i casi clinici di due fratelli, uno con COVID-19 grave e l'altro asintomatico. Il primo presentava la rara mutazione genetica e una ridotta attività dell'interferone, l'altro no. “I nostri risultati mostrano che i giovani uomini con COVID-19 grave che hanno perso la funzione nei loro geni che regolano l'interferone rappresentano un piccolo ma importante sottogruppo di pazienti COVID-19 più vulnerabili”, ha dichiarato la professoressa Elisa Frullanti. “Queste mutazioni potrebbero potenzialmente spiegare la gravità della malattia fino al 2% dei giovani uomini affetti da COVID-19. Riteniamo che lo screening di queste mutazioni negli uomini che sono ricoverati con la malattia grave e trattati con l'interferone potrebbe prevenire più morti”, le ha fatto eco la coautrice Alessandra Renieri. I dettagli della ricerca “Association of Toll-like receptor 7 variants with life-threatening COVID-19 disease in males: findings from a nested case-control study” sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica eLife.

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