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Urinoterapia, c’è persino chi beve la pipì per stare meglio

Ne avrete letto attraverso diversi termini come “amaroli” o “acqua di vita”. Si tratta di modi edulcorati per definire l’uso di assumere la propria urina come farmaco. In definitiva stiamo parlando della urinoterapia.
A cura di Juanne Pili
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“Bive!” (da “Gli effetti di Gomorra sulla gente 2” dei The Jackal).
“Bive!” (da “Gli effetti di Gomorra sulla gente 2” dei The Jackal).

Non più di mezzo bicchiere al giorno di urina, la mattina: è la prescrizione maggiormente consigliata da diversi guru delle medicine alternative e delle diete estreme. C'è per esempio chi sostiene di integrare le proprie carenze alimentari dovute all'assunzione di sola frutta, proprio mediante il cosiddetto "amaroli". Tra i vari termini per definire questa pseudo-medicina esiste anche quello di "acqua di vita", mentre i detrattori preferiscono liquidarla come "urofagia".

Una medicina antica come i salassi

Fin dai tempi degli antichi sciamani – quando le diagnosi si facevano attraverso le viscere dei gufi e si curava di tutto con salassi e sanguisughe – le urine sono state utilizzate per curare asma, emicrania e persino il cancro.

In che senso l'urina fa davvero bene? Certamente l'urina "fa bene", nel senso che espellendola il corpo si depura. E' anche vero che l'urea ivi contenuta può avere proprietà antimicrobiche, come lo stesso disinfettante, ma non per questo ce lo beviamo. Oltre a questo essendo uno scarto del nostro corpo qualche ragione dovrà pur esserci, contenendo infatti tutte quelle sostanze che il corpo rifiuta, anche per la loro tossicità. Se abbiamo dati sulla tossicità delle urine, specialmente quando ingerite, non è possibile trovare studi scientifici degni di questo nome a sostegno delle proprietà terapeutiche riguardanti l'assunzione orale dell' "acqua di vita". Non è nemmeno difficile ottenere un test in modo da accertarsene, con un proprio campione portato ad analizzare in laboratorio.

L'idea delle proprietà antitumorali dell'urinoterapia si afferma a partire dagli anni '70 con i presunti studi di Evangelos Danipolous, un medico greco che tuttavia non riesce a pubblicare i suoi risultati in rivista medica, dove si effettua la peer review. C'è anche chi prova a presentare degli studi, come Joseph Eldor nel 1997, la rivista su cui pubblica è Medical hypotheses la quale – perfettamente coerente col titolo della testata – si prefigge di pubblicare articoli meramente ipotetici, privi ancora di un supporto empirico; in altre parole non è prevista la peer review dei lavori presentati.

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