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Una persona senza sintomi di Covid può essere contagiosa come un paziente ricoverato in ospedale

La stima dei livello di infettività della malattia in un nuovo studio pubblicato su Science che ha determinato la quantità di virus presente nel tratto orofaringeo di oltre 25mila positivi: “Il 9% delle persone ha una carica virale molto alta, di cui un terzo non mostra particolari sintomi di infezione”.
A cura di Valeria Aiello
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La carica virale di un tampone di un test molecolare per Covid-19, ovvero il numero totale di copie del genoma di Sars-Cov-2 presente nel campione, fornisce una stima diretta della quantità di virus che risiede nel tratto oro-faringeo di un paziente e, come tale, è un parametro utile per valutare quanto una persona che ha contratto l’infezione sia o meno contagiosa. Sulla base di questo principio, un nuovo studio pubblicato sulla rivista Science dal team di ricerca dell’Università Charité guidato dal virologo tedesco Christian Drosten ha determinato la carica virale presente in oltre 25mila persone con diagnosi di Covid-19 e utilizzato i risultati ottenuti per determinare il livello di infettività della malattia a seconda della sua gravità, dell’età dei positivi e delle varianti virali.

Asintomatici contagiosi come i sintomatici

In particolare, l’analisi in funzione sintomi della malattia ha confermato quanto sostenuto dai ricercatori fin dai primi mesi della pandemia di Covid-19, cioè che anche le persone asintomatiche possono avere cariche virali molto elevate e paragonabili a quelle riscontrate nei pazienti che hanno richiesto il ricovero in ospedale per Covid.

In circa l’8% dei campioni testati, indicano gli studiosi, sono state rilevate cariche virali estremamente elevate – un miliardo di copie per campione o superiori – e più di un terzo di queste persone non presentava alcun sintomo oppure manifestava solo lievi segni di infezione. “Questi dati forniscono una base virologica dell’ipotesi che una minoranza di individui infetti sia la causa della maggior parte di tutte le trasmissioni – ha spiegato il professor Drosten – . Il fatto che in questo gruppo siano incluse così tante persone senza sintomi rilevanti sottolinea l’importanza delle misure di controllo della pandemia, come il distanziamento sociale e l’uso obbligatorio della mascherina”.

Età e varianti virali

Risultati particolarmente interessanti sono emersi anche dal confronto della carica virale con l’età dei pazienti. Il raffronto non ha indicato particolari differenze nella quantità di virus tra i positivi di età compresa tra i 20 e i 65 anni, con una media di circa 2,5 milioni di copie del genoma di Sars-Cov-2 per campione. Più bassa, invece, la carica virale rilevata nei tamponi di bambini più piccoli (da 0 a 5 anni), con livelli che partivano da 800mila copie e aumentavano al crescere dell’età, fino ad avvicinarsi a quelle degli adulti nei bambini più grandi e negli adolescenti. Sulla base dei modelli di decorso della carica virale nel tempo, i ricercatori hanno inoltre stimato che le persone che contraggono l’infezione raggiungano livelli di carica virale massima nella gola da 1 a 3 giorni prima della comparsa dei sintomi.

Quanto invece ai campioni raccolti da persone contagiate dalla variante inglese (B.1.1.7), l’analisi ha rivelato che la carica virale aumenta in media di un fattore dieci rispetto a quanto osservato con le altre varianti, mentre le stime di laboratorio circa l’infettività hanno indicato un incremento di fattore di 2,6. Una divergenza per cui “i dati di laboratorio potrebbero non essere ancora in grado di fornire una spiegazione definitiva – ha aggiunto Drosten – . Una cosa è però chiara: la variante B.1.1.7 è più contagiosa delle altre”.

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