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Una dieta ricca di fibre può ridurre la reazione infiammatoria associata a Covid-19

Lo suggeriscono i risultati di alcuni esperimenti di laboratorio con cellule e tessuti intestinali infettati da Sars-Cov-2: “Ridotta l’espressione di un gene che attiva la produzione di citochine pro-infiammatorie e di un recettore che media l’attività antivirale”.
A cura di Valeria Aiello
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Tessuto del colon infettato da SARS-CoV-2 e colorato mediante immunofluorescenza per la proteina umana ACE2 (rosso) e per la proteina virale Spike (verde). In blu i nuclei cellulari / Gut Microbe
Tessuto del colon infettato da SARS-CoV-2 e colorato mediante immunofluorescenza per la proteina umana ACE2 (rosso) e per la proteina virale Spike (verde). In blu i nuclei cellulari / Gut Microbe

Una dieta ricca di fibre può ridurre la reazione infiammatoria associata all’infezione da coronavirus Sars-Cov-2. Lo suggeriscono i risultati di alcuni esperimenti di laboratorio condotti presso l’Università di Campinas (UNICAMP) dello stato di San Paolo, in Brasile, dove un team di ricerca ha analizzato come gli acidi grassi a catena corta (SCFA) presenti nelle fibre alimentari possano modificare i meccanismi di risposta a Covid-19. Gli stessi SCFA, d’altra parte, non hanno influenzato la carica virale, sebbene questo non escluda la potenziale azione regolatoria nell’espressione genica e dei recettori responsabili dell’infiammazione.

I test, pubblicati nel dettaglio in uno studio su Gut Microbes, sono stati svolti su cellule epiteliali intestinali e campioni di tessuto del colon infettati con Sars-Cov-2 in laboratorio e poi trattati con una miscela di acetato, propionato e butirrato – composti prodotti dalla metabolizzazione da parte del microbiota intestinale degli SCFA. “La carica virale non è stata ridotta ed è stata la stessa che abbiamo riscontrato nelle cellule e nei tessuti non trattati – ha detto Raquel Franco Leal, docente presso la School of Medical Sciences dell’UNICAMP e co-autore principale dello studio – . Tuttavia, i campioni trattati hanno mostrato una significativa diminuzione nell’espressione del gene DDX58 (un recettore del sistema immunitario innato che rileva gli acidi nucleici virali e attiva una cascata di segnali che si traduce nella produzione di citochine pro-infiammatorie) e di un recettore dell’interferone-lambda che media l’attività antivirale. C’è stata inoltre una diminuzione nell’espressione della proteina TMPRSS2, che è importante per l’ingresso del virus nelle cellule”.

Altri test su campioni di tessuto del colon infettati e non trattati hanno anche mostrato altre alterazioni di geni associati al riconoscimento e alla risposta del virus durante l’infezione, tra cui l’aumento dell’espressione dell’interferone-beta (IFN-beta), una molecola pro-infiammatoria che partecipa alla tempesta di citochine associata a casi gravi di Covid-19. “Questi cambiamenti possono essere rilevanti per l’inizio della catena infiammatoria – ha aggiunto Leal – . In questo contesto, sarà importante approfondire l’analisi degli effetti degli SCFA con questi parametri, poiché questo potrebbe essere significativo nelle fasi gravi della malattia”.

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