Sindrome di down, ecco come si “spegne” il cromosoma in più
Un gruppo di studiosi è riuscito a dimostrare come la terza copia del cromosoma 21 possa essere neutralizzata. La ricerca, i cui risultati sono stati resi noti da un articolo pubblicato dalla rivista Nature, si è avvalsa di un esperimento eseguito in provetta ed è ancora lontana da possibili applicazioni cliniche: ma costituisce un importante passo avanti nella conoscenza della sindrome di Down, e della biologia che ne determina genesi e caratteristiche, nonché una premessa a nuove prospettive terapeutiche cromosomiche che, in futuro, potrebbero influire sullo sviluppo di questa malattia rara.
All'origine della sindrome di Down c'è la presenza di una terza copia, intera o parziale, del cromosoma 21: nell'uomo, infatti, sono presenti 23 coppie di cromosomi, per un totale di 46 di cui due rappresentano i cromosomi sessuali. In ragione di tale soprannumero, la sindrome di Down viene detta anche trisomia 21; generalmente associata a disabilità intellettiva che può essere di vario grado e a specifiche caratteristiche fisiche, comporta inoltre, negli individui che ne sono affetti, un più alto rischio di sviluppare epilessia e morbo di Alzheimer precoce, oltre ad un'incidenza particolarmente elevata di malformazioni cardiache congenite e di disfunzioni del sistema endocrino. Rendere inattivo quel minuscolo cromosoma, del quale talvolta è presente anche un semplice frammento, è la strada alla quale guardano da anni gli scienziati che lavorano su questa sindrome: tuttavia, fino ad ora, i tentativi effettuati di terapie cromosomiche si sono rilevati un insuccesso.
La ricerca condotta da Jeanne Lawrence e dai suoi colleghi della University of Massachusetts Medical School sembra invece esser riuscita laddove gli altri hanno precedentemente fallito, quanto meno in vitro: gli studiosi sono, infatti, riusciti a "silenziare" una delle tre copie del cromosoma 21 in cellule ottenute da pazienti con sindrome di Down, normalizzandone così le funzioni di proliferazione e differenziazione. Per raggiungere tale obiettivo, il team hanno sfruttato un processo che naturalmente avviene in biologia quando, durante le fasi di sviluppo dell'embrione di sesso femminile, uno dei due cromosomi X viene silenziato. Tale meccanismo si avvale di uno specifico gene a Rna non codificante chiamato Xist (X-inactive specific transcript) che, ricoprendo l'intero cromosoma, apporta delle modifiche strutturali e nell'espressione genica finalizzate al funzionamento di uno solo tra i due cromosomi X che eviterà, così, l'espressione duplicata dei geni. Per eseguire l'esperimento, i ricercatori hanno utilizzato le cellule ottenute da un paziente Down generando da queste delle staminali pluripotenti indotte (iPS9 le quali contenevano le tre copie del cromosoma 21. Le cellule in coltura sono state poi manipolate ricorrendo ad una copia di Xist che ha "ricoperto" il gene in eccesso, generando così delle iPS prive di anomalie.
Il confronto tra cellule trattate e non trattate ha consentito agli studiosi di osservare come lo "spegnimento" del gene soprannumerario abbia degli effetti sia sulla struttura, sia sull'espressione genica del cromosoma: dal punto di vista strutturale, si presentava più compatto e corredato dalle modifiche che lo rendevano simile al corpo di Barr, ossia la struttura condensata che deriva dall'inattivazione del cromosoma X nell'embrione femminile; le cellule si sono inoltre dimostrate in grado di correggerne gli schemi di crescita e di differenziazione anomali, ricorrenti nelle cellule di soggetti con sindrome di Down. L'espressione degli specifici geni della copia in più del cromosoma 21 risultava silenziata, pochi giorni dopo l'inizio dell'esperimento.
Gli autori dello studio, pur non celando l'ottimismo per il buon risultato ottenuto in termini di conoscenza e di prospettive terapeutiche, sottolineano come i progressi verso una cura dovranno essere ancora molti: un fatto inevitabile con una sindrome complessa ed articolata come la trisomia 21, la quale comporta segni e sintomi assai variabili da paziente a paziente. Eppure, questo primo piccolo passo in direzione di una comprensione superiore della biologia della sindrome di Down, con tanto di modello cellulare, forse un giorno potrebbe rivelarsi in tutta la sua importanza.