Quasi il 100% dei guariti dalla Covid di Vo’ ha anticorpi dopo 9 mesi, anche gli asintomatici
Il comune di Vo' in provincia di Padova (Veneto) e quello di Codogno in provincia di Lodi (Lombardia) resteranno per sempre scolpiti nella storia della pandemia di COVID-19 in Italia, non solo perché qui scoppiarono i primissimi focolai noti, ma anche perché furono colpiti precocemente dalle restrizioni (poi estese al resto del Paese) e da altre misure, rappresentando un prezioso banco di studi per gli scienziati alle prese col il nuovo nemico, il coronavirus SARS-CoV-2. Particolarmente significative le indagini condotte nel comune veneto, del quale era originario Adriano Trevisan, la prima vittima della Covid in Italia; qui si effettuarono test molecolari di massa da cui attingere informazioni sul tasso delle infezioni, sulle caratteristiche di queste ultime, sui contagi in famiglia e soprattutto sull'immunizzazione analizzando la presenza di anticorpi nel sangue, risultata particolarmente duratura.
Le indagini, condotte in stretta collaborazione tra scienziati del Dipartimento di Medicina Molecolare dell'Università di Padova, della Scuola di Salute Pubblica dell'Imperial College di Londra e dell'Azienda Ospedaliera di Padova, hanno portato a diverse scoperte di rilievo. Ad esempio è emerso che il 42,5 percento degli abitanti sottoposti a tampone oro-rinofaringeo – tra febbraio e marzo 2020 – e risultati positivi al patogeno pandemico era totalmente asintomatico. Inoltre sono stati scoperti alcuni “super immuni” i cui anticorpi sono aumentati tra un test condotto a inizio del 2020 e un altro 9-10 mesi dopo. Ora un'altra ricerca guidata dal team del microbiologo Andrea Crisanti ha determinato che gli anticorpi dovuti all'infezione naturale possono durare per almeno 9 mesi nella stragrande maggioranza dei contagiati, sia che abbiano sviluppato la forma sintomatica dell'infezione (la COVID-19), sia che non abbiano manifestato alcun sintomo. I risultati dei test indicano infatti che il 98,8 percento di coloro che erano stati infettati tra febbraio e marzo, a novembre 2020 aveva ancora anticorpi contro almeno un antigene. I diversi test immunologici sono andati a caccia degli anticorpi contro la proteina S o Spike del coronavirus SARS-CoV-2 (il “grimaldello biologico” usato dal patogeno per agganciarsi alle cellule umane e infettarle); contro il nucleocapside; e quelli neutralizzanti, le immunoglobuline IgG che ci proteggono dalla reinfezione.
Gli scienziati hanno rilevato che nell'arco di 9 mesi vi è stata una riduzione progressiva di tutti i titoli anticorpali nei diversi test, tuttavia essi risultavano ancora rilevabili nella quasi totalità dei pazienti almeno contro uno degli antigeni. Nel 18,6 percento di essi, inoltre, è stato registrato un significativo incremento degli anticorpi nello stesso arco di tempo, un evento legato a una reinfezione documentata o ritenuta probabile. Aver avuto la forma asintomatica o sintomatica dell'infezione non ha comportato differenze immunologiche significative. “Non abbiamo trovato prove che i livelli di anticorpi tra le infezioni sintomatiche e asintomatiche differiscano significativamente, ciò suggerisce che la forza della risposta immunitaria non dipenda dai sintomi e dalla gravità dell'infezione”, ha specificato la professoressa Ilaria Dorigatti, prima autrice dello studio e membro dell'MRC Center for Global Infectious Disease Analysis e Abdul Latif Jameel Institute for Disease and Emergency Analytics (J-IDEA) dell'Imperial College di Londra.
Un altro elemento d'interesse emerso della ricerca è legato al fatto che un positivo ha circa il 25 percento delle probabilità di infettare un membro del proprio nucleo famigliare, un rischio inferiore rispetto a quello emerso da indagini precedenti. Significativo anche il fatto che la stragrande maggioranza dei contagi (circa l'80 percento) è provocato da appena il 20 percento dei positivi. Secondo Cristanti e colleghi a Vo' il tracciamento dei contatti ha avuto una efficacia limitata sulla diffusione dell'epidemia, a differenza dello screening di massa che ha permesso di individuare e isolare precocemente i positivi. Ad aiutare anche il “mini – lockdown” introdotto prima di quello nazionale. Alla luce di questi risultati, il contact tracing così com'è concepito risulterebbe ancor meno efficace nelle grandi città, dove gli incontri sociali sono indubbiamente più numerosi che in un paesino di 3mila anime; pertanto gli autori dello studio sottolineano l'importanza di approntare strategie di screening di massa estese e di migliorare il tracciamento dei contatti per continuare a combattere la pandemia. I dettagli della ricerca “SARS-CoV-2 antibody dynamics and transmission from community-wide serological testing in the Italian municipality of Vo’” sono stati pubblicati sull'autorevole ricerca scientifica Nature Medicine.