Protocollo di Kyoto, a che punto siamo?
Il 16 febbraio del 1997 veniva sottoscritto, il 16 febbraio del 2005 entrava in vigore a tre mesi dalla ratifica della Russia: il protocollo di Kyoto, l'accordo nato dalla concertazione internazionale con l'obiettivo di ridurre le emissioni dei gas serra nell'atmosfera, compie oggi i suoi primi sette anni di vita con oltre 190 paesi aderenti, tra sostenitori e detrattori, tra Stati firmatari e virtuosi e nazioni che non mostrano di avere particolarmente a cuore le sorti del pianeta ma, anzi, giudicano prioritario un proprio «sviluppo economico» esente da qualunque forma di controllo; tra chi è convinto che il nostro pianeta si stia sempre più pericolosamente riscaldando a colpa della CO2, e reputa che questo fenomeno stia avendo conseguenze dirette sull'ambiente, e una piccola minoranza di «controcorrente» che sostengono che un aumento di temperatura non sia ancora riscontrabile e che, ad ogni modo, rientrerebbe in oscillazioni su grande scala che, da sempre, si sono verificate sulla Terra.
Agli albori dell'effetto serra. La devastazione del territorio e l'incremento esponenziale dell'inquinamento sono due dannosi elementi certamente non recenti, ma che affondano le proprie radici nel secolo del positivismo e nelle (fin troppo) ottimistiche previsioni in merito a sviluppo economico e miglioramento della società (è sufficiente uscire dai confini della nostra piccola Europa per comprendere quanto questo progresso sia stato pagato dalle altrui risorse e quanto sia andato ad esclusivo vantaggio di pochi fortunati, nati dalla parte giusta). Agli inizi del XX secolo vennero avanzate le prime timide teorie in merito al global warming: Svante Arrhenius, fisico e chimico svedese, fu uno dei primi a parlare di effetto serra, ipotizzando che l'aumento del biossido di carbonio nell'atmosfera avrebbe potuto dar luogo ad alterazioni nel clima. Eppure, da allora, sono passati molti decenni prima che tali speculazioni venissero prese in seria considerazione, dando vita ad un concreto intervento di contrasto contro il fenomeno; il maturare di una coscienza ambientale è, senza dubbio, un prodotto della seconda metà del ‘900 (e ancor più del nostro decennio), dovuto in parte anche ad una maggiore informazione e sensibilità sull'argomento.
Riscaldamento globale sì, riscaldamento globale no. Non c'è totale unanimità rispetto alla tesi del riscaldamento globale, questo va sicuramente detto: tuttavia, bisogna ugualmente sottolineare, come ad un fronte compatto di scienziati ed esperti seriamente preoccupati per il futuro del nostro pianeta, si contrapponga una minoranza che accusa di allarmismo e catastrofismo gli autorevoli autori di ricerche, studi e documentari in materia. Nel mezzo, come sempre, i più numerosi, gli indifferenti. Da una parte le notizie relative allo scioglimento dei ghiacci, all'incremento dell'acidità dei mari, all'aumento di fenomeni climatici devastanti quali siccità ed inondazioni con scienziati all'opera in cerca di soluzioni radicali contro il cambiamento climatico, dall'altra chi nega il fenomeno o lo riconduce ai naturali mutamenti che avvengono da milioni di anni sul nostro pianeta, sostenendo la sostanziale inutilità del protocollo di Kyoto come strumento di contrasto di un riscaldamento globale che non esiste o che, se esiste, rientrerebbe semplicemente nell'ambito degli immensi mutamenti a cui il nostro pianeta va soggetto da milioni di anni.
Il protocollo di Kyoto, comunque indispensabile. Ma nell'appoggiare un'ipotesi o piuttosto un'altra, il risultato non cambia: perché un sistema di regole che disciplini i grandi paesi inquinatori è comunque necessario. Negare il global warming, nei suoi effetti o nelle sue cause, non può in ogni caso essere una giustificazione o un'attenuante per consentire che le politiche irresponsabili che hanno portato (e ancora proseguono) alla devastazione dell'ambiente di ogni angolo di Terra continuino indisturbate: ecco perché gli obiettivi nati a Kyoto devono continuare ad essere perseguiti, nonostante l'avvicinarsi della scadenza del trattato e nonostante la grande delusione che è stata la conferenza sul cambiamento climatico tenutasi a Durban nel dicembre del 2011. Il quadriennio 2008-2012, durante il quale per i paesi industrializzati soprattutto vigeva l'obbligo di ridurre le emissioni inquinanti almeno del 5.2% rispetto ai livelli raggiunti nel 1990, è stato un successo per alcuni Stati virtuosi, Europa in testa (l'Italia risulta essere un po' indietro rispetto alla media, ma lascia intravedere scenari positivi ed incoraggianti) ma, sfortunatamente, non per tutti i paesi i risultati sono stati ugualmente soddisfacenti.
I paesi in via di sviluppo. Nell'epoca industriale, quando l'incremento esponenziale delle emissioni di gas serra spinse scienziati ed organismi internazionali ad iniziare ad indagare per capire cosa stava accadendo alla nostra atmosfera, i principali paesi responsabili dell'inquinamento si trovavano, per lo più, dalla nostra parte di mondo: il protocollo di Kyoto, dunque, nasce principalmente con lo scopo di fissare dei regolamenti soprattutto per gli stati occidentali. In virtù di questo, i paesi in via di sviluppo, primi tra tutti India e Cina, pur contando una popolazione enorme sono stati esonerati dall'obbligo di ridurre le proprie emissioni di CO2; se è vero che tali territori hanno anch'essi diritto ad uno sviluppo, quale fu quello conosciuto dall'occidente nei decenni passati, non si può tuttavia non sottolineare come questo progresso sia pagato principalmente, non soltanto dall'ambiente, ma da una popolazione che non gode dei benefici dell'industrializzazione in termini di diritti e miglioramenti sociali (emblematico il caso dell'India, una delle maggiori economie mondiali in cui la mortalità infantile sfiora punte record vicine a quelle dell'Africa subsahariana e in cui gli investimenti nella sanità pubblica non superano l'1.1% del PIL).
Il Nord America ed il resto del mondo. Ma i più acerrimi nemici del protocollo di Kyoto sono, da sempre, gli Stati Uniti: responsabili da soli di circa il 30% delle emissioni dell'intero pianeta, avevano sottoscritto il trattato nell'epoca di Bill Clinton. Quando alla Casa Bianca arrivò George W. Bush l'adesione venne immediatamente ritirata: il Presidente si giustificò con il timore che il taglio dei gas serra avrebbe potuto compromettere l'economia nazionale. Ad affiancare la bandiera a stelle e strisce, da poco, il Canada che ha annunciato la propria uscita dal protocollo in occasione della conferenza di Durban, suscitando critiche da parte della comunità internazionale. Il Nord America, nella fattispecie, si sottrae del tutto ad un impegno nato dal comune obiettivo di salvare quel che resta di un ambiente devastato, adducendo come motivazione, manco a dirlo, il «dio mercato». Poiché il 5.2% della riduzione complessiva prevista non è ripartita ugualmente tra tutti i paesi, per gli Stati Uniti era stato previsto un 7%; l'Unione Europea, nel suo insieme, ha l'obbligo di ridurre dell'8% (ma ha già sfiorato il 15%), il Giappone del 6%; esistono, inoltre, alcuni paesi come Russia, Nuova Zelanda ed Ucraina ai quali è stata richiesta solo la stabilizzazione, mentre Norvegia, Australia e Nuova Zelanda hanno diritto ad incrementare le proprie emissioni rispettivamente di 1%, 8% e 10%.
Obiettivo: ridurre le emissioni e non solo. Kyoto non significa, soltanto, una rigida normativa che impone drastici tagli: ha degli obiettivi importanti che riguardano l'ottimizzazione delle risorse energetiche, la promozione di agricoltura sostenibile e rimboschimento, lo studio, il miglioramento e l'incremento delle energie alternative. Accanto a questo, la riduzione oltre che di anidride carbonica (CO2), metano (CH4), anche di altri gas serra: il protossido di azoto (N2O), prodotto principalmente nel settore agricolo e gli idrofluorocarburi (HFC), i perfluorocarburi (PFC) e l'esafluoruro di zolfo (SF6) impiegati nell'industria chimica e manifatturiera. Certamente, che il riscaldamento globale sia solo la fantasia di scienziati allarmisti o sia un fenomeno realmente in atto, il protocollo di Kyoto, e soprattutto il suo rispetto da parte degli Stati, costituisce un essenziale strumento per la valutazione del grado di civiltà del nostro genere: come esseri umani meritiamo qualcosa di meglio del divenire un gruppo di animali dediti al «dio consumo» che non è più in grado di costruire un futuro.