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Covid 19

Perché per fermare i focolai di Covid-19 bisogna vaccinare (e testare) anche i bambini

La risposta in uno studio condotto dai ricercatori della Yale University: “La rapida identificazione delle infezioni nell’età pediatrica sarà essenziale per ridurre il carico di malattia nella popolazione anche quando saranno disponibili i vaccini per i più giovani”.
A cura di Valeria Aiello
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Una strategia di contrasto della pandemia, mirata a identificare le infezioni asintomatiche da Sars-Cov-2 nei bambini, avrebbe effetti paragonabili a quelli della loro vaccinazione. Lo indicano i risultati di un nuovo studio di simulazione modellistica pubblicato su JAMA da un team di ricerca della Yale University di New Haven, nel Connecticut, che ha valutato i benefici dello screening nell’età pediatrica nel ridurre il carico della malattia nella popolazione.

Vaccinare (e testare) anche i bambini

Con l’evolversi della pandemia è ormai noto che una percentuale significativa di contagi avviene durante le fasi pre-sintomatiche e sintomatiche dell’infezione e che, nella maggioranza dei casi, i bambini non manifestano alcun segno clinico della malattia. Questo rende i più piccoli un importante driver di diffusione silenziosa del virus, sollevando crescenti preoccupazioni a causa della comparsa di nuove varianti che potrebbero alimentare nuove ondate virali. “È improbabile che la sola vaccinazione degli adulti contenga i focolai nel breve termine – indicano gli studiosi – . In assenza di disponibilità di vaccini per i bambini e con l’immunizzazione dei soli adulti (40% in un anno, con l’80% dei soggetti di età pari o superiore a 50 anni), i tassi di attacco (la percentuale di incidenza che misura la frequenza della malattia, ndr) sarebbero ridotti al 12,5% tra i bambini e all’8,2% nella popolazione complessiva, senza l’identificazione di infezioni silenti”.

I ricercatori hanno dunque simulato gli effetti di un approccio volto a identificare le infezioni silenti tra i soli bambini, osservando una rapida diminuzione all’aumento dei casi individuati entro 2 o 3 giorni dal contagio. “Ad esempio, l'identificazione di almeno l'11% dei contagi entro 2 giorni (e del 14% entro 3 giorni) sopprimerebbe il tasso di attacco complessivo a meno del 5% – osservano gli studiosi – . Con un ritardo di 4 giorni, è necessario un tasso di identificazione del 41% (un aumento di 3,7 volte) rispetto a un ritardo di 2 giorni per portare i tassi di attacco a meno del 5%. Con un ritardo di 5 giorni, è invece necessario un tasso di identificazione del 97% (un aumento di 6,9 volte rispetto a un ritardo di 3 giorni) nell'identificazione) per portare i tassi di attacco a meno del 5%”.

Gli effetti di test e vaccinazione

Tra gli scenari ipotizzati dai ricercatori, anche gli effetti della vaccinazione di adolescenti e bambini con l’arrivo dei vaccini anti-Covid per l’età pediatrica. “Se le infezioni silenti tra i bambini non verranno rilevate – aggiungono gli autori dell’analisi –  una copertura vaccinale irrealisticamente alta (≥81%) di queste fasce di età, oltre alla copertura vaccinale del 40% degli adulti, deve essere raggiunta entro 1 anno per sopprimere i tassi di attacco a meno del 5%”. Un dato che, nel complesso suggerisce come, anche quando i vaccini saranno disponibili per i più giovani, la rapida identificazione delle infezioni silenti sarà comunque “ancora essenziale per mitigare il carico di malattia nella popolazione”.

Pur con le limitazioni del modello (non sono inclusi gli effetti degli interventi non farmaceutici nella popolazione) che ha tenuto conto del numero di riproduzioni effettive per stimare gli effetti della rapida identificazione delle infezioni silenti nei bambini, i risultati dello studio mostrano che se nell’età pediatrica un’infezione su 10 fosse accertata entro due giorni dal contagio (o un'infezione su 7 entro 3 giorni dall’infezione) ad esempio mediante tracciamento dei contatti o test di routine, il tasso di attacco complessivo potrebbe essere ridotto al di sotto del 5%. “Con i recenti progressi nelle modalità di test non invasivi, come i test della saliva e gli screening nelle scuole – concludono gli studiosi –  , si potrebbe raggiungere in modo fattibile questo obiettivo di identificazione”.

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