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Nati per uccidere? Uno studio controverso sulle radici della violenza umana

Secondo alcuni ricercatori spagnoli, la posizione della nostra specie nell’albero filogenetico dei mammiferi determinerebbe l’inclinazione alla violenza letale.
A cura di Nadia Vitali
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È stato l'abbandono dello stato di “buon selvaggio”, come voleva Rousseau, che ha conferito alla nostra specie l'inclinazione alla violenza? La volontà di uccidere il prossimo è sorta a partire dalle società organizzate o, piuttosto, risiede nel nostro patrimonio genetico? La riflessione sull'origine della malvagità nel genere umano ha interessato i filosofi di tutte le epoche e interessa, negli ultimi decenni, gli scienziati che si occupano di studiare l'evoluzione della nostra specie e la sua competizione con le altre.

Secondo José Maria Gómez, biologo evoluzionista presso l'università di Granada, la “sete di sangue” sarebbe profondamente radicata nel nostro DNA dal momento che risalirebbe a milioni di anni fa, al tempo dei primati antenati: questa la conclusione di uno studio decisamente ampio che ha guardato all'albero genealogico di oltre un migliaio di mammiferi per risalire fino alle radici evolutive della violenza letale. Il lavoro, pubblicato dalla rivista Nature, è sicuramente controverso e incompleto per alcuni aspetti ma, certamente, destinato a non passare inosservato per i suoi contenuti.

La violenza tra i mammiferi…

Per due anni, Gómez e colleghi hanno ripreso ricerche scientifiche al fine di elaborare un database contenente informazioni relative alle morti di 1024 specie di mammiferi; naturalmente, quello che maggiormente interessava i ricercatori era la proporzione di animali uccisi da un membro della propria specie. Cominciamo col dire che – naturalmente – il fenomeno è ben lungi dal riguardare soltanto gli uomini: delle specie analizzate, circa il 40% risulta coinvolto in “assassinii tra conspecifici”, anche se naturalmente con tassi che variano ampiamente. Gli animali abituati a vivere in gruppi e a difendere i territori, come i lupi o gli scimpanzé, tendono ad essere più violenti, ad esempio, di pipistrelli e balene; violenti sono anche animali che associamo spesso all'idea di simpatia, come i suricati o gli scoiattoli. Ma l'aspetto più interessante, secondo i ricercatori spagnoli, sta nel fatto che sia la violenza sia la non violenza tendono a raggrupparsi lungo i medesimi rami dell'albero di famiglia dei mammiferi: in altre parole, più violente sono le specie con cui si è imparentati filogeneticamente, più probabilità ci sono di essere una specie violenta.

… E tra i primati

Cosa significa questo per gli esseri umani? I nostri parenti più prossimi, come è noto, sono i primati, tra i quali si registrano tassi di violenza interspecifica variabili: si va dagli scimpanzé comuni (Pan troglodytes), tra i quali quasi il 4,5% delle morti è causata da uno altro scimpanzé, ai ben più pacifici Bonobo (Pan paniscus), responsabili di appena lo 0,68% delle morti dei propri conspecifici. A partire da questi dati, servendosi di comparazione e modelli matematici, il gruppo ha dedotto che la percentuale di uomini uccisi da altri uomini dovrebbe attestarsi sul 2%.

A questo punto, però, bisognava valutare se tale numero fosse corretto, o comunque verosimile: in che modo? Lavorando, ancora una volta, sulla letteratura scientifica che documenta la violenza letale tra gli esseri umani a partire dalla preistoria per giungere fino ai giorni nostri, in oltre 600 distinte popolazioni terrestri, servendosi di statistiche moderne, etnografie, dati storici, scavi archeologici. Ne è emerso che il valore del 2% coincide con quello osservabile, sulla base dell'evidenza archeologica, nei gruppi di cacciatori-raccoglitori preistorici, vissuti tra 50.000 e 10.000 anni fa: questo significa, spiegano i ricercatori, che un certo livello di violenza letale è determinato dalla posizione della nostra specie all'interno della filogenesi dei mammiferi. Quindi l'uomo è violento esattamente quanto predice la sua storia evolutiva di mammifero; ma è tutto qui?

Violenza tra uomini: una questione (soprattutto) di cultura

In realtà no perché – evidenziano gli stessi autori del paper – a partire da questo 2% i tassi di violenza sono molto mutati nel corso della storia dell'umanità, in corrispondenza di cambiamenti estremamente profondi che hanno segnato le popolazioni. L'omicidio – si legge su Science – è passato dai livelli del Paleolitico a raggiungere quota 12% in Eurasia durante il medioevo, per poi scendere anche al di sotto di quella percentuale che, secondo Gómez, sarebbe “naturale”, all'1,3% dell'età contemporanea, grazie al ruolo del diritto esercitato dagli Stati.

Ragion per cui, se anche volessimo accettare che c'è nella nostra specie una innata tendenza statistica alla violenza letale, siamo anche costretti ad ammettere che la cultura può modulare, incrementare, ridurre o arrestare la nostra sete di sangue.

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