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Covid 19

Le varianti del coronavirus non sfuggono a parte della nostra risposta immunitaria

Analizzando la risposta immunitaria di 852 pazienti guariti dalla COVID-19 e oltre 850mila sequenze genetiche del coronavirus SARS-CoV-2, un team di ricerca dell’Università della Scienza e della Tecnologia di Hong Kong (HKUST) ha determinato che è molto improbabile che le varianti del patogeno siano in grado di influenzare la risposta dei linfociti T, i globuli bianchi che distruggono le cellule già infettate.
A cura di Andrea Centini
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La risposta immunitaria all'aggressione di un agente patogeno non si limita alla generazione di anticorpi per combattere il nemico, ma è un'azione stratificata e complessa che coinvolge più attori. Essa si divide fondamentalmente in due rami principali: la risposta anticorpale o umorale, che determina appunto la produzione di anticorpi neutralizzanti contro l'antigene (dopo l'attivazione dei linfociti B che li generano); e la risposta cellulare, legata alla produzione di linfociti T specializzati nell'attaccare e distruggere le cellule già infettate. In parole semplici, sono globuli bianchi che fanno pulizia dei danni già arrecati da virus, batteri e altri patogeni. Alla risposta umorale è associata anche la produzione delle cosiddette cellule B della memoria, così chiamate poiché ricordano il nemico con cui siamo entrati in contatto e permettono la produzione di anticorpi anche per tutta la vita, in base al tipo di infezione sperimentata (o al tipo di vaccino inoculato). Una delle preoccupazioni maggiori per gli scienziati sul coronavirus SARS-CoV-2 è l'emersione di varianti in grado di aggirare il nostro sistema di difesa, catalizzando il rischio di reinfezione e riducendo l'efficacia dei vaccini. Un nuovo studio, fortunatamente, ha appena dimostrato che è improbabile che le varianti in circolazione possano ridurre l'efficacia delle cellule T; in parole semplici, non sarebbero in grado di compromettere la risposta immunitaria cellulare, può avendo già dimostrato una certa influenza negativa su quella anticorpale.

A determinare che le varianti di preoccupazione del SARS-CoV-2 molto difficilmente possono influenzare la risposta cellulare è stato un team di ricerca guidato da scienziati del Dipartimento di Ingegneria Elettronica e Informatica dell'Università della Scienza e della Tecnologia di Hong Kong (HKUST), che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Dipartimento di Ingegneria Chimica e Biologica. Gli scienziati, coordinati dal professor Ahmed Abdul Quadeer, docente di Ingegneria presso l'ateneo asiatico, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato i dati di 18 diversi studi immunologici, tutti dedicati alla valutazione della risposta cellulare dei linfociti T in pazienti guariti dalla COVID-19, l'infezione provocata dal patogeno pandemico. I pazienti, 852 in tutto, provenivano da quattro continenti ed erano ben distribuiti “per età, sesso, gravità della malattia e tempo di raccolta del sangue”, hanno scritto gli autori dello studio in un comunicato stampa.

Incrociando tutti i dati il professor Quadeer e colleghi hanno osservato che le cellule T dei pazienti hanno preso di mira frammenti – chiamati epitopi – “di quasi tutte le proteine del virus, inclusa la proteina spike che è l'obiettivo principale di molti vaccini esistenti”. Dall'analisi di 850mila sequenze genetiche del coronavirus SARS-CoV-2 gli scienziati hanno inoltre dimostrato che la maggior parte degli epitopi identificati “sembrava non essere influenzata dalle attuali varianti di preoccupazione”. “Riteniamo che questa sia una buona notizia, in particolare per i vaccini. In contrasto con le risposte anticorpali che hanno dimostrato di essere influenzate dalle varianti, la nostra analisi suggerirebbe che le risposte delle cellule T possano essere relativamente robuste, assumendo che le risposte del vaccino imitino quelle dell'infezione naturale”, ha dichiarato il professor Matthew Mckay, coautore dello studio. “Ci siamo concentrati in modo specifico sui pazienti COVID-19 guariti poiché le loro risposte immunitarie sono rappresentative di risposte efficaci contro il virus”, gli ha fatto eco il professor Quadeer.

Sui 700 epitopi identificati, gli scienziati ne hanno individuati venti chiamati “immunoprevalenti” che hanno innescato risposte delle cellule T in diverse coorti di pazienti. Cinque di essi hanno offerto una risposta particolarmente robusta. “Gli epitopi immunoprevalenti identificati sembrano rappresentare parti del virus che sono comunemente prese di mira dalle cellule T nei pazienti guariti dalla COVID-19. È possibile, ma soggetto a ulteriori indagini sperimentali, che il targeting di questi epitopi possa svolgere un ruolo nel contribuire a esiti favorevoli della malattia”, ha concluso il professor Mackay. In precedenza uno studio condotto da scienziati del La Jolla Institute for Immunology di La Jolla (Stati Uniti) aveva dimostrato che l'immunità cellulare innescata dai vaccini anti Covid a mRNA (Pfizer e Moderna) non viene influenzata dalle varianti. Questo risultato assieme a quello dell'ateneo di Hong Kong dimostra che il nostro sistema immunitario può fornirci armi efficaci contro la COVID-19 scatenata dalle nuove varianti. I dettagli della ricerca “Landscape of epitopes targeted by T cells in 852 convalescent COVID-19 patients: Meta-analysis, immunoprevalence and web platform” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Cells Reports Medicine.

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