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Covid 19

La variante inglese del coronavirus non è più mortale: lo dimostrano due nuovi studi

Una ricerca anglo-americana e una condotta da scienziati di Singapore hanno dimostrato che la variante inglese (B.1.1.7) del coronavirus SARS-CoV-2 non provoca sintomi più gravi e non è più mortale di altri ceppi, come evidenziato da indagini precedenti. Il nuovo lignaggio, ora dominante in larga parte d’Europa, è tuttavia sensibilmente più contagioso.
A cura di Andrea Centini
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Le varianti emergenti del coronavirus SARS-CoV-2 rappresentano una seria preoccupazione per gli esperti, a causa delle nuove caratteristiche che possono conferire al patogeno pandemico. Maggiore trasmissibilità, letalità superiore e capacità di eludere gli anticorpi neutralizzanti – sia quelli indotti da precedenti infezioni naturali che quelli generati dai vaccini – sono indubbiamente le più pericolose, e alcune di esse sono state già riscontrate nei lignaggi balzati agli onori della cronaca internazionale. Per la variante inglese B.1.1.7, ad esempio, è stata determinata una contagiosità fino al 90 percento superiore rispetto al ceppo originale di Wuhan, mentre le varianti sudafricana (B.1.351 / 501Y.V2) e brasiliana (P.1) hanno mostrato una certa capacità elusiva nei confronti dei vaccini e dell'immunità pregressa, a causa della mutazione di “fuga immunitaria” E484K sulla proteina S o Spike. Per quanto concerne la variante inglese, un recente studio dell'Università di Exeter pubblicato sul British Medical Journal ha mostrato che questo ceppo presenterebbe una mortalità fino al 64 percento maggiore rispetto a quella del ceppo originale, una capacità che è stata fortunatamente smentita da due nuove indagini. La variante inglese è del resto quella divenuta predominante in larga parte dell'Europa.

Il primo dei due studi è stato condotto dai tre scienziati Sean Wei Xiang Ong, Barnaby Edward Young e David Chien Lye del Dipartimento di malattie infettive dell'ospedale Tan Tock Seng e dell'Università tecnologica di Nanyang (Singapore). I tre ricercatori hanno analizzato i casi di circa 350 pazienti contagiati dal coronavirus SARS-CoV-2, dei quali il 58 percento era stato infettato dalla variante inglese e il restante 42 percento da altri ceppi. Il 36 percento di coloro che erano colpiti dalla variante inglese ha sviluppato la forma grave della COVID-19 (l'infezione provocata dal SARS-CoV-2) ed è deceduto, così come il 38 percento dei pazienti contagiati da un altro lignaggio. Ciò suggerisce che la variante B.1.1.7 non determina una differenza statisticamente significativa in termini di sintomi gravi e mortalità per COVID-19. Sebbene non vi fosse tale distinzione, i ricercatori di Singapore hanno osservato che i contagiati dalla variante inglese erano tendenzialmente più giovani ed erano appartenenti a minoranze etniche, inoltre le cariche virali rilevate dai tamponi erano superiori (un dato associato alla maggiore trasmissbilità). La ricerca “Lack of detail in population-level data impedes analysis of SARS-CoV-2 variants of concern and clinical outcomes”, che si è basata sul sequenziamento dell'intero genoma virale e dunque risulterebbe più attendibile rispetto alle indagini precedenti, è stata pubblicata sull'autorevole rivista scientifica The Lancet Infectious Diseases.

Il secondo studio è stato condotto da un team di ricerca internazionale guidato da scienziati del Dipartimento della Ricerca sui Gemelli ed Epidemiologia Genetica del King's College di Londra, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi della società Zoe Global, della Scuola di Medicina dell'Università di Harvard e del Massachusetts General Hospital. Gli scienziati, coordinati dal professor Mark S Graham, hanno analizzato statisticamente i dati raccolti dall'applicazione “COVID Symptom Study” tra il 28 settembre e il 27 dicembre del 2020. Proprio in quel lasso di tempo, la variante inglese – emersa nel Sud-Est dell'Inghilterra – ha iniziato a farsi largo nella comunità britannica fino a diventare quella dominante. Sull'applicazione vengono caricati i dati dei pazienti britannici colpiti da COVID-19, e gli esperti li utilizzano per condurre indagini epidemiologiche. Nel caso specifico, hanno indagato sui dati auto-segnalati da circa 37mila pazienti. Come indicato nell'abstract dello studio, gli scienziati non hanno rilevato differenze nei sintomi (dunque nella gravità della malattia) e nella durata dell'infezione tra coloro che erano stati contagiati dalla variante inglese e chi era stato infettato da altri ceppi. Anche questo studio, dunque, non mostra una maggiore aggressività e letalità della variante B.1.1.7. Il professor Graham e colleghi hanno comunque scoperto che la variante inglese presentava un indice Rt di 1,35 volte superiore rispetto alle altre, segno della maggiore trasmissibilità già evidenziata da altre indagini. I dettagli della ricerca “Changes in symptomatology, reinfection, and transmissibility associated with the SARS-CoV-2 variant B.1.1.7: an ecological study” sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica The Lancet Public Health.

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